Agorà

Fascismo. La diaspora degli intellettuali

Massimo Onofri giovedì 5 gennaio 2017

Ci fu chi, come il notevole slavista Renato Poggioli, preoccupatissimo del Patto di Monaco, lasciò l’Italia con angosciosa fretta, accettando nel 1938 un incarico allo Smith College di Northampton, per approdare, l’anno successivo, ma con una tappa nel Vermont, alla Brown University, per chiudere poi alla Harvard University la sua carriera. Quella convocazione allo Smith College non era stata casuale: se è vero che, a dirigerlo, c’era William Allan Neilson, il quale era impegnato a invitare accademici europei di fama perseguitati dal fascismo e dal nazismo. Ma ci fu anche chi non visse traumaticamente il trasferimento negli Stati Uniti: come nel caso del grande teorico e storico dell’arte Erwin Panofsky, il quale fu sorpreso dall’emergenza del nazismo proprio quando, ottenuto dalla sua sede di Amburgo il permesso di insegnare un semestre l’anno presso la New York University, si trovava lì a lavorare.

E che dire di Leo Spitzer ed Eric Auerbach, che arrivava da Istanbul, destinati entrambi, insieme a molti altri di lingua tedesca a trascorrere sul suolo americano l’ultimo tratto della loro carriera accademica? Su questo amarissimo, ma anche esaltante capitolo della storia culturale novecentesca, il libro più bello resta ancora quello di Dante Della Terza, Da Vienna a Baltimora. La diaspora degli intellettuali europei negli Stati Uniti d’America (1987), il quale, proprio da Renato Poggioli - che lo chiamò ad Harvard dove ha insegnato Letterature Comparate sino al 1993- ereditò una biblioteca sulla quale, sempre in questo libro, scrive pagine davvero mirabili.

Che cosa rappresentò, per la storia della civiltà americana, questa diaspora delle migliori intelligenze letterarie europee - quanto alle scienze quantitative, basterebbe citare il solo caso di Enrico Fermi - può essere perfettamente esemplificato da una battuta che Walter Cook, il direttore del dipartimento d’arte che accolse Panofsky, era solito ripetere: «Hitler è il miglior amico che io abbia; è lui che scuote l’albero, ma le mele le raccolgo io». A riaprire il dossier sull’emigrazione intellettuale in America negli anni Trenta, e da un punto di vista assai particolare, ci pensa ora l’editore Franco Cesati, che manda in libreria una miscellanea di saggi intitolata Borgese e la diaspora intellettuale europea negli Stati Uniti, a cura di Ilaria de Seta e Sandro Gentili, con interventi, tra gli altri, di Matteo Billeri, Nicolas Bonnet, Luca La Rovere, Giovanni de Leva, Ivan Pupo, Ester Saletta, Bart Van den Bossche, Cristina Terrile e Gandolfo Librizzi. Interessante il contributo della prima curatrice, incentrato com’è, con un’appendice di lettere inedite, sul rapporto del grande critico e storico della letteratura siciliano con le Università, italiane e americane, tra il 1930, ultimo suo anno in patria, e il 1952, quello della sua scomparsa a Fiesole.

La radiografia dell’accademia nazionale, a quell’altezza cronologica, è impietosa: col rettore dell’ateneo milanese che si distingue per zelo in quanto delatore di regime ai danni di Borgese, il quale, prima dell’esilio, aveva ricevuto già ben due aggressioni da parte delle squadracce fasciste. Entusiastica e generosa, invece, è l’accoglienza d’oltreoceano, tra Berkeley e Chicago. Ma che sentimento ha Borgese degli Stati Uniti, che pur riluttando, sceglie infine come seconda patria? Lo stesso che dislaga da un libro che ricaverà dagli articoli inviati al Corriere della Sera tra il 1931 e il 1934, e che intitolerà Atlante americano (1946).

L’America, si sa, ha un’importanza cruciale per gli intellettuali italiani che vivono nella cattività fascista, da Cesare Pavese e Elio Vittorini a Giaime Pintor, e bene ha fatto Giovanni de Leva a rileggere quello di Borgese a ridosso di altri due libri diversamente fondamentali, America primo amore (1935) di Mario Soldati e America amara( 1939) di Emilio Cecchi. Quel che colpisce, in Atlante americano, è l’assoluta estraneità di Borgese a quell’antiamericanismo ideologico, che sarà un atteggiamento dominante nella cultura italiana del Novecento, autarchica e nazionalista prima, anticapitalista poi, e che gli fa cogliere, degli Stati Uniti, l’aspetto di modernità assoluta, quella di una società di massa in bilico tra individualismo monadico e coscienza democratica, anche nel senso dell’emancipazione femminile, che molto lo coinvolge. Borgese, consegnando al tavolo anatomico la sua stessa autobiografia, aveva scritto con Rubè (1921), sull’Italia e sugli intellettuali italiani, un libro indimenticabile: da considerare come minimo un capitolo d’autobiografia della nazione, a precorrere, però, il romanzo europeo d’impianto analitico ed esistenziale. Da quelle pagine sarebbero arrivati, poco dopo, Gli indifferenti (1929) di Alberto Moravia e molti personaggi d’un Vitaliano Brancati che, proprio alla fine degli anni ’20, lo aveva scelto già come maestro, ma anche gli esordi di Soldati e Guido Piovene, che gli fu pure allievo all’università. In quanto critico aveva già dato contributi memorabili: e i tre volumi de La vita e il libro (1910-13) stanno lì a dimostrarlo.

Ma sarà l’esperienza americana a completarlo e a fare di lui uno dei poligrafi italiani più suggestivi del Novecento, secondo, forse, soltanto a Alberto Savinio: basterebbe ricordare quel libro, che piacque molto a Salvemini, intitolato Golia marcia del fascismo (1937), o forse l’altro meno noto, ma assai sorprendente, e cioè Idea della Russia (1951), scritto in sintonia, chissà se consapevole, con un altro grande intellettuale della diaspora, Leo Strauss, che interpretava la modernità, le sue scissioni, sul metro classico della filosofia platonica. Quell’Idea della Russia, insomma, ove il conflitto tra capitalismo e comunismo, sulla scorta di Eschilo, Erodoto e Aristotele, veniva letto, assai suggestivamente e ben oltre la contingenza della polemica politica, nell’ambito del millenario scontro tra principio greco di libertà e principio persiano d’autorità.