Agorà

DIALOGHI PER FRANCESCO / 2. Veca: una lezione di laicità

Alessandro Zaccuri giovedì 31 ottobre 2013
​Laicità, certo: laicità. È un tema che sta molto a cuore al filosofo Salvatore Veca, che oggi pomeriggio viene festeggiato a Pavia, presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori, a conclusione della sua carriera accademica. Contemporaneamente arriva in libreria Un’idea di laicità (il Mulino, pagine 100, euro 10), un piccolo saggio in cui Veca ha distillato gli elementi essenziali di una riflessione che lo accompagna da anni. Uno, più degli altri, gli preme sottolineare prima di prendere in esame le prospettive di dialogo indicate da Francesco in questi primi mesi di pontificato: «Al contrario di quanto si pensa solitamente – dice lo studioso – la libertà religiosa non deriva dall’insieme dei diritti politici, ma li genera e li fonda, per tutta una serie di ragioni storiche e concettuali».Allude allo «sfinimento» provocato dalle guerre di religione all’epoca della Riforma?«Sì, la radice è quella: tu e io, che finora ci siamo combattuti sulla base delle nostre rispettive credenze religiose, sigliamo un patto di convivenza, compossibilità e reciproca compatibilità, che ci permetta di conservare convinzioni alternative, ma nel contempo ci aiuti a riconoscerci nella comune condizione di cittadinanza democratica».Così semplice?«Solo in teoria, perché all’atto pratico questo principio può essere modulato in maniera molto diversa. C’è un primo livello, non necessariamente disprezzabile, che è quello dell’indifferenza. Ci arrestiamo su una soglia minima, d’accordo, che resta comunque preferibile rispetto alla violenza. Mi viene da osservare che papa Bergoglio proviene da un contesto, quello dell’America Latina, in cui una prospettiva del genere rappresenta già una conquista. Ma anche qui in Europa, di recente, siamo costretti ad ammettere che il venir meno dell’indifferenza prelude al collasso di tutto l’edificio della tolleranza. All’altro estremo troviamo l’atteggiamento che, invece, Francesco sta testimoniando con le sue parole e con i suoi gesti: non l’indifferenza, ma l’attenzione, una curiosità verso l’altro che diventa apertura, passione, disponibilità a imparare. Sempre nel contesto della laicità, si badi bene, e senza mai venir meno alle proprie credenze».Sta dicendo che dal Papa viene una lezione di laicità?«La laicità, intesa nel suo significato più autentico, appartiene al cristianesimo in modo irrinunciabile e costitutivo. Per rendersene conto basta ascoltare l’esperienza di tanti parroci, di tanti sacerdoti che stanno vicini alle persone nei loro drammi e nei loro bisogni più profondi. È l’esempio dato da Francesco, appunto: non esporre agli altri la dimostrazione delle ragioni per cui sarebbe legittimo o sensato credere, ma rendere evidente che c’è una vita spesa e vissuta, in concreto, sulle ragioni della fede».Ed è per questo che l’invito al dialogo risulta tanto convincente?«Anzitutto questo sgombra il campo da una retorica, come dire?, diplomatica. Quella per cui si invoca il dialogo e ci si richiama a una generica melassa di valori comuni, evitando però di prendere sul serio le differenze su ciò che è fondamentale nella vita di ciascuno. L’insistenza di papa Francesco sulla verità vissuta come relazione, e non imposta come astrazione, conduce verso questo orizzonte di serietà, oltre che di precisione concettuale».In che senso?«Legare la verità all’esperienza della verità è tema cristiano, e anzi cristologico, per eccellenza. Ma anche al di fuori di una prospettiva di fede rappresenta un monito a non considerare la verità come qualcosa che possa essere pronunciato dall’esterno. La verità sta sempre nella partecipazione, nello stare in mezzo agli altri, praticando una lealtà che è dovuta in primo luogo a se stessi. Troppe volte abbiamo assistito a una confusione di piani più o meno volontaria, per cui il modello della verità scientifica viene applicato in maniera surrettizia a contesti di tutt’altro tipo. Le leggi della fisica sono vere in quanto verificate, non c’è dubbio. Però non sono sullo stesso piano di un’affermazione come “Io sono la via, la verità e la vita”».È una distinzione solo teorica?«Niente affatto. A nessuno può essere richiesto di venire meno a una convinzione di fede. Questo equivarrebbe a un’ingiunzione tirannica e sarebbe, inoltre, la sconfessione della verità come principio pluralista. Il che non significa, lo ripeto, che ogni asserzione può essere scambiata con qualsiasi altra. Vale semmai l’opposto: proprio perché la verità deve essere perseguita in ambiti diversi, diventa particolarmente urgente interrogarsi su che cosa significa l’incontro con Qualcuno che è la verità».Torniamo all’origine religiosa delle libertà civili?«O forse approdiamo alla misericordia come modello autentico di una convivenza basata sulla serietà delle proprie convinzioni e sull’attenzione appassionata per le convinzioni degli altri. Nel caso di papa Francesco si citano molte ascendenze, molte similitudini. Quella che personalmente mi colpisce di più riguarda un altro grande gesuita vissuto nel XVI secolo. Penso a Matteo Ricci, nel quale i cinesi riconobbero un amico venuto da lontano per trovare nuovi amici. Ecco, esattamente questo è lo stile di Francesco, lo stile della laicità».​​​​​​​​