Intervista. Design: il «Jazz» di La Pietra
Usa la matita come il suo clarinetto, per suonare musica rigorosamente jazz. Anche il design e l’architettura non hanno bisogno di partitura. Si improvvisa, ci si contamina, si interpreta un tema e lo si rielabora in infinite variazioni. Si crea. Ugo La Pietra, classe 1938, è un po’ un jazzista del design. Radicale, di rottura, d’avanguardia – com’è stato definito nel corso del tempo –. Sfumature diverse di un “ricercatore” che si muove sempre nell’ambito dell’anti-progetto. Che non si fa inquadrare in schemi o gabbie definite, scuole o correnti di pensiero. Anche quando il tempio del design italiano, la Triennale di Milano – che nel 1968 era stata occupata da chi, come La Pietra, accusava i progettisti di un rapporto ambiguo con l’industria – gli dedica la sua prima grande retrospettiva (fino al 15 febbraio, catalogo Corraini). Il titolo la dice lunga sul suo rapporto con l’istituzione: Progetto disequilibrante. Eppure, “l’anti” conquista la scena. Un segno di cedimento? Un riconoscimento? «Avendo lavorato tutta la vita fuori dal sistema, anzi contro il sistema, il sistema non può, non deve riconoscermi – dice La Pietra –. Sarebbe una contraddizione. Non nascondo che essere accolto alla Triennale fa però un certo effetto… Sì, pensandoci, questa mostra è un po’ buffa…». Poi riprende: «Sono stato sempre considerato un designer- architetto radicale. Negli anni Sessanta e Settanta, era più facile esserlo. Basti pensare al fermento che vivevamo a Brera», ammette. Brera era un “quartierepiattaforma”, divenuto il centro della vita artistica, intellettuale e un po’ bohémienne di Milano. Attorno al mitico Bar Jamaica, c’erano Lucio Fontana, Piero Manzoni, Enrico Castellani.
«Ci si confrontava, si immaginava un modo diverso di vivere e abitare la città, di interpretare il design e l’arte. Essere contestatore negli anni ’80, era invece più difficile: quando la cultura aveva la possibilità di inventarsi un nuovo stile, il post-moderno, con un ritorno agli stilemi classici… io vedevo qualcosa di diverso: la possibilità per il designer di parlare con gli artigiani, di recuperare il grande patrimonio produttivo e la cultura materiale legata a usi, costumi, riti di un territorio, legare idee e mani. Ma questo era contro il sistema. Perché il designer lavorava per le royalty,per i numeri, per l’industria. Perché lavorare con l’artigiano e per pochi pezzi? Senza contare – aggiunge – che questo campo d’azione superava la rigidità con cui si metteva da una parte l’arte e dall’altra il disegno industriale. C’era una terza via, che al di là delle Alpi, nel Nord Europa, in America e in Giappone, era naturale: l’arte applicata. Ecco, per trent’anni ho lavorato su questo». Ugo La Pietra ha così girato a fondo il Paese, per dialogare con i materiali e gli artigiani, con il genius loci: l’alabastro di Volterra, la ceramica di Caltagirone (la collaborazione con Giacomo Alessi e Nicolò Morales) e siciliana (a Polizzi Generosa con Giovanni D’Angelo), ma anche di Nove, di Faenza, di Vietri sul mare, la pietra leccese (ha inventato la kermesse “Territori di Pietra”), l’oro di Arezzo o il marmo di Carrara, il vetro di Murano (con Simone Cenedese). Nel 1985 Federlegno incaricò La Pietra di realizzare il film Classico Contemporaneo dedicato al “fare italiano”. E l’anno dopo gli affidò la creazione del Salone dell’arredo classico e contemporaneo di Verona Abitare il tempo. «Per la prima colta si mettevano in contatto quelli che producevano senza avere mai visto un progetto e i progettisti che non avevano mai visto un laboratorio». La valorizzazione e il rinnovamento in chiave contemporanea dell’artigianato italiano. «Oggi sembra addirittura banale in un Paese che adesso parla solo di made in Italy e considera l’eccellenza italiana dell’artigianato la salvezza possibile. Ma negli anni Ottanta gli artigiani erano disprezzati dai designer», dice con orgoglio. «Purtroppo – aggiunge – l’artigianato puro di allora lo abbiamo in parte perso». Abitare il tempo. Ma anche lo spazio: il rapporto fra l’uomo e l’ambiente. Il tema che tutto tiene nell’opera di questo eclettico artista. «Abitare è essere ovunque a casa propria » è il motto dell’Internazionale Situazionista che La Pietra ha fatto proprio, superando nell’idea di territorio urbano il concetto di uno «spazio da usare » per uno «spazio da abitare»: «Espandere la personalità di chi vi abita, connotare e dare identità al luogo, possederlo mentalmente ma qualche volta anche fisicamente ». Nascono così le provocazioni che negli anni Settanta hanno fatto grande scalpore. Pensiamo al Commutatore, manifesto del sistema disequilibrante di La Pietra: una piramide aperta e flessibile posizionata in strada, che può assumere diverse inclinazioni, garantendo a ciascuno di poter avere una visione del tutto individuale della realtà esterna. Il cuore “ideologico” del sistema di La Pietra lo esprime nel 1983 Gillo Dorfles: «Cercare di risollevare l’uomo, l’abitante, il cittadino dalla condizione di “servaggio” fisico e psichico nel quale la società burocratica e tecnocratica dei nostri giorni lo ha rinchiuso». A distanza di trent’anni da quelle battaglie, dal suo studio di via Guercino, ormai in piena China Town, a pochi passi dalla Milano verticale, La Pietra resta radicale e controcorrente: «C’è un rinnovato interesse dell’abitare. Ci sono molte esperienze interessanti. Ma continua a non esserci un’idea piena dell’abitare, soprattutto in chi fa le scelte che riguardano il nostro abitare». Il punto è lo stare insieme. «Perché alle sette della sera tutti sentono l’esigenza di ritrovarsi in un posto e fare l’happy hour? Perché vogliono stare insieme. Per fare cosa? Anche niente. Ma vogliono socialità. In una città e in una società sempre più di solitudini, questo è il cuore del problema. E stare a piano terra o al 24° piano di un grattacielo pieno di alberi non cambia molto». Idee (jazz e disequilibranti?) per la Milano pronta all’Expo.