Idee. Questa società ha perso il desiderio
José Tolentino Mendonça è sacerdote, teologo e poeta portoghese
«Insegnami, Signore, a pregare la mia sete, / a chiederti di non togliermela o spegnerla troppo in fretta...». Inizia così la preghiera in forma di poesia che chiude "Elogio della sete", il libro di José Tolentino Mendonça pubblicato in questi giorni da Vita e Pensiero (pagine 151, euro 14,00), del quale anticipiamo un significativo brano. Un saggio sul desiderio di amore e crescita interiore senza del quale perdiamo la nostra verità più intima.
Entrare in contatto con la propria sete non è un’operazione facile, ma se non lo facciamo la vita spirituale perde aderenza alla nostra realtà. Abbiamo bisogno di questo atto di riconoscimento per ancorare il percorso spirituale al nostro orizzonte concreto, biografico, storico. «La pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare», ci ricorda il profeta Isaia (Is 55,10). Prendiamo questi verbi: irrigare, fecondare, far germogliare. Verbi che descrivono una trasformazione reale. La terra non rimane la stessa. È un vero processo rivitalizzante. Ma la trasformazione non accade se impermeabilizziamo la vita nella sua crosta, mantenendo unicamente una gestione funzionale ed efficace della superficie; o se, allo stesso modo, ci proiettiamo in un’idealizzazione che poi ci impedisce di guardare alla vita quale essa è, nelle sue forme e deformazioni, nella sua normalità e anomalia, nei suoi sussurri e nelle sue grida. E quanto maggiore sarà la secchezza del terreno, più la pioggia avrà difficoltà a penetrare. Può succedere di essere completamente assetati e di non accorgersene. Sembra che tutto fluisca, ma in profondità non è così.
Nella valutazione dello stato della nostra sete, credo possa venirci in aiuto la letteratura. Oggi, nel fare teologia, assistiamo sempre più, e con grande vantaggio, all’utilizzo della letteratura, ormai considerata uno strumento importante di analisi degli itinerari religiosi. La letteratura è in effetti uno strumento sapienziale. Probabilmente adesso stiamo comprendendo meglio che gli scrittori e i poeti sono maestri spirituali pertinenti e le opere letterarie possono essere di enorme utilità nel nostro cammino di maturazione interiore. E questo… perché? Il teologo Elmar Salmann ci ricorda tre ragioni fondamentali. Per prima cosa, la letteratura riesce a generarsi come metafora integrale della vita ai suoi diversi livelli (il suo scopo è descrivere l’interezza, non solo questa o quella dimensione univoca). E la vita spirituale progredisce soltanto quando è una rivisitazione dell’esistenza nel suo complesso, nella sua diversità. In secondo luogo, la letteratura ci dà una conoscenza concreta, non concettuale (per esempio: non dimostra, bensì mostra, in un chiaro sforzo di disappropriazione ideologica per fedeltà all’esistenza in quanto tale). Anche la vita spirituale non è un’ideologia, e neppure un’idealizzazione che si limita a sorvolare la realtà, come un cappello metafisico che fluttua. Terzo: la letteratura è uno strumento di precisione come pochi altri, poiché si pone al livello della singolarità, libertà e tragicità della vita (riesce a mettere in relazione l’io e il noi, l’ardentemente personale e l’avventura collettiva, ma anche la grazia e il peccato, l’incontro e la solitudine, il dolore e la redenzione). La vita spirituale non è prefabbricata: è coinvolta nella radicale singolarità di ogni soggetto. Per darle carne, devono esserci un volto e un nome. Per questo è naturale che lungo il nostro cammino andiamo cercando il contributo della letteratura.
Parlare della sete è parlare dell’esistenza reale e non della fiction di noi stessi a cui troppe volte ci adattiamo. È illuminare un’esperienza, più che un concetto. È lasciare che il corpo esprima quel che siamo, nella sua levità e nel suo peso, nella sua unità e nelle impasse che ci dividono, nell’entusiasmo e nella frustrazione, nella fatica e nel giubilo di essere. È ingaggiarsi in una auscultazione profonda della vita. La sete ci esprime. Ma può avvenire che proviamo la più grande difficoltà perfino ad ammettere di essere assetati. Tutto sembra andare avanti senza particolari scossoni. Per questo reagiamo con imbarazzo e ci chiediamo: ma assetati di che? Di chi? Può avvenire che, immersi nella nostra routine quotidiana, sconfessiamo i sintomi della sete e, a un certo punto, questi divengano incomprensibili quanto una lingua straniera a cui non siamo iniziati. Eppure, la necessità vitale di rigenerazione è da sempre incisa nella nostra carne. Non possiamo fare come se la sete non esistesse. Anzi, proprio dal metterci in suo ascolto dipende la qualità spirituale della vita. Ascoltare la propria sete è interpretare il desiderio che è in noi. E, in questo senso, è certamente importante approfondire il senso di questa parola.
Nella parte finale del Simposio di Platone appare un’interpretazione del desiderio che segnerà la storia dell’Occidente fino ai giorni nostri. Il desiderio vi è inteso come mancanza, ha l’accezione di carenza. Secondo il mito greco, l’amore è figlio di Penia (che rappresenta la povertà e l’indigenza) e di Poros (che rappresenta i molteplici espedienti dell’ingegno). In quanto tale, esso non è uno stato di possesso, ma di desiderio incessante della verità, della bellezza e della bontà che gli mancano. Quando amiamo, che cosa succede? Accade questo: l’amore desidera i beni che non ha in se stesso. La vocazione di chi ama è perciò una vocazione di questuante: intraprende il suo cammino nello sconforto delle mani vuote; dorme all’addiaccio; veste da straccione come un mendicante. Ha ricevuto giusto le risorse per attrarre ed essere attratto, cioè ha ricevuto la sete. E così vive. Per questo dobbiamo distinguere il desiderio da una mera necessità, che si placa e si soddisfa col possesso di un oggetto. Non andiamo a confondere il desiderio coi bisogni. Il desiderio è una mancanza mai completamente soddisfatta, è una tensione, una ferita sempre aperta, un’interminabile esposizione all’alterità.
Oggi diviene sempre più chiaro che le società capitalistiche, organizzate attorno al consumo, che sfruttano avidamente le compulsioni di soddisfazione di necessità indotte dalla pubblicità, stanno in pratica rimuovendo la sete e il desiderio tipicamente umani. Il discorso capitalistico promette di liberare il desiderio dalle inibizioni della legge e dalla morale in nome di una soddisfazione illimitata. Ma quando il piacere, la passione, la gioia si esauriscono in un consumismo sfrenato, tanto di oggetti come di persone, arriviamo all’estinzione della sete, all’agonia del desiderio. La vita perde il suo orizzonte. I tetti diventano sempre più bassi.
C’è nelle nostre culture, e allo stesso modo nelle nostre Chiese, un deficit di desiderio. Quando si nota, nel momento attuale, l’emergere, e su scala sempre più grande, di soggetti senza desiderio, questo deve condurci a un’autocritica ecclesiale. Noi battezzati formiamo una comunità di desideranti? I cristiani possiedono sogni? La Chiesa è un laboratorio dello Spirito dove, come nell’oracolo provocatore di Gioele (3,1), i nostri figli e figlie profetizzano, i nostri anziani hanno sogni e i nostri giovani costruiscono nuove visioni, non solo religiose, ma anche nuove comprensioni culturali, economiche, scientifiche, sociali? La Chiesa ha fame e sete di giustizia (Mt 5,6)? I cristiani aspettano davvero, secondo la promessa, «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia » (2Pt 3,13)? Forse noi cristiani dobbiamo valorizzare di più la spiritualità della sete. Abbiamo forse bisogno di ritrovare il desiderio, la sua itineranza e apertura, più che non le codificazioni in cui tutto è già previsto, stabilito, garantito. L’esperienza del desiderio non è un titolo di proprietà o una forma di possesso: è una condizione di mendicità. Il credente è un mendicante di misericordia.