Argentina. Tarnopolsky: «Una vita senza la mia famiglia desaparecida»
Non era mai successo, neanche nei giorni più bui della dittatura argentina, che la barbarie dei militari golpisti inghiottisse un’intera famiglia. «Arrivarono a casa nostra il 15 luglio del 1976, fecero saltare la porta d’ingresso con una bomba e portarono via i miei genitori, mio fratello, mia cognata e mia sorella di soli quindici anni. Io riuscii a salvarmi solo per caso, perché ero nascosto in casa di amici e neanche i miei sapevano dove fossi». Quel giorno ma-ledetto, Daniel Tarnopolsky aveva appena diciott’anni e all’improvviso si ritrovò solo, costretto a fare i conti con l’esilio e con un vuoto incolmabile. Trovò rifugio prima in Israele, poi in Francia, potendo contare soltanto su una nonna materna distrutta dal dolore e su una rete di amici di famiglia che lo aiutò a ricostruirsi una vita lontano dall’Argentina. «Quando di colpo niente esiste più perché te l’hanno strappato», spiega, «ciò che resta è un buco impossibile da riempire, con ferite sanguinanti incurabili che per anni continuano a farti male». Col trascorrere dei mesi le ricerche dei familiari si rivelano inutili, seguendo il triste copione di migliaia di altri desaparecidos, e al dolore, alla paura, all’incertezza e al senso di smarrimento si unisce l’impossibilità di comprendere le ragioni della loro scomparsa. I Tarnopolsky erano una famiglia ebrea di idee progressiste ma soltanto Sergio, il primogenito, era politicamente impegnato. I genitori di Daniel erano due professionisti: il padre, Hugo, era un chimico, la madre Blanca lavorava in ospedale come psicopedagoga, e il loro rapimento era apparentemente inspiegabile anche in quel periodo terribile.
Solo molti anni dopo, grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, emerse che Sergio aveva provato a piazzare una bomba all’interno della Esma, la famigerata Scuola di meccanica della Marina, ma era stato scoperto. Dopo averla disinnescata, i militari avevano deciso di vendicarsi di lui accanendosi contro la sua famiglia. «Peraltro eravamo ebrei, e nella logica deviata dall’antisemitismo dei militari, questo costituiva un’aggravante», spiega Daniel, che ha trascorso il resto della sua vita cercando di dare un senso a quel vuoto. Alcuni anni fa ha scritto un libro che è stato appena tradotto anche in italiano ( Betina sin apa- recer. La storia intima del caso Tarnopolsky, qudulibri, traduzione di Antonella Cancellier), nel quale ricostruisce la sua esperienza di sopravvissuto e la sua ricerca incessante di una giustizia terrena per quei crimini che cancellarono la sua famiglia. Nel 2004, dopo una coraggiosa battaglia legale, è riuscito a far condannare uno dei massimi esponenti della giunta militare golpista, l’ammiraglio Eduardo Massera. Già punito con l’ergastolo in precedenza per crimini contro l’umanità, Massera fu costretto a pagare un cospicuo risarcimento economico che Daniel ha interamente devoluto alle Abuelas de Plaza del Mayo, le nonne impegnate nella ricerca dei nipoti sottratti ai tempi della dittatura. Quello stesso anno il presidente Kirchner trasformò l’Esma, uno dei più orribili luoghi di tortura e di morte, dal quale passarono anche i suoi familiari, in un museo per la memoria di quei crimini. È in quel momento che Daniel decide di raccontare la sua storia di superstite rielaborando i tentativi di ricostruzione della sua vita che aveva compiuto fino ad allora.
Quando tutto sprofondò intorno a lui, aveva sentito il bisogno di stabilire un legame tra la vita e la morte che lo aiutasse a sostenere le assenze eterne e prive di risposta dei suoi cari. Aveva trovato conforto nella mistica e nella religione. «Fin dai primi tempi, poiché non c’era alcun modo di conoscere la sorte dei miei familiari, dove si trovavano, se erano ancora vivi, iniziai a cer-anzitutto care informazioni anche con l’aiuto di veggenti e di medium. Tanti familiari di desaparecidos lo facevano, pur senza ammetterlo, per paura di essere giudicati». Il libro dà forma al suo lungo percorso interiore intervallando tre voci narranti. La storia della sua vita prima e dopo quel giorno del 1976 si alterna alla voce della nonna sopravvissuta – unica radice familiare rimastagli dopo il disastro – e alla narrazione onirica di un destino alternativo immaginato per la sorella minore, Betina. È lei la protagonista di una testimonianza struggente che trascende la memoria e la dimensione razionale dei fatti fino a farsi poesia. «L’espressione “ sin aparecer” del titolo non è grammaticalmente corretta in spagnolo», spiega Daniel, che nei giorni scorsi è stato in Italia a presentare il suo libro, «significa che mia sorella c’è, ma non appare».
I familiari dei desaparecidos vivono un conflitto interiore interminabile, un lutto senza fine, che non si conclude perché non hanno un corpo da seppellire. Un orrore che a volte può anche sfociare nell’illusione. A lungo due veggenti, in luoghi e momenti diversi, hanno fatto coltivare a Daniel la speranza che sua sorella Betin fosse ancora viva. «Tutto quello che ho immaginato della sua vita dopo il sequestro, e che ho riportato nel libro, nasce dal mio lavoro con una veggente, una giovane donna che mi contattò consegnandomi un testo biblico in lingua ebraica che diceva di aver ricevuto tramite scrittura automatica in trance. Quei messaggi coincidevano con quello che anni prima mi aveva detto un altro veggente che lavorava con le immagini, e aveva percepito una linea di sangue che divideva mia sorella dagli altri scomparsi. Come se lei, contrariamente a tutti loro, fosse ancora viva».
La commovente ricerca di Betina è stata il tassello fondamentale di un lungo percorso di rinascita interiore. Per cercare di uscire da quell’abisso esistenziale, oggi Daniel si dedica al canto liturgico e alla religione studiando l’ebraico in un seminario rabbinico, lavora come attivista per i diritti umani per trasmettere ai giovani la memoria di quanto è accaduto. E qualche anno fa è diventato padre a sua volta, per far rivivere la sua famiglia e dare un futuro a quel nome che qualcuno aveva voluto cancellare. «So che i miei parenti sono stati torturati, uccisi e gettati in fondo al mare, o almeno è quello che suppongo in base ai racconti, alle testimonianze, alle confessioni dei carnefici. Ma ho imparato a vivere con il non sapere. Credo nell’irreale e nell’immateriale, non obbligo nessuno a crederci, ma mi dà l’illusione che un giorno, prima o poi, incontrerò di nuovo i miei familiari in un’altra dimensione».