Nelle scorse settimane a Seul (Corea) si è tenuto il trentesimo congresso dell’International
college of neuropsychopharmacology che ha visto la partecipazione di oltre 2000 scienziati provenienti da Est e Ovest del mondo. Una vetrina importante sullo stato della ricerca nell’ampio settore della malattia mentale, sulle tecniche diagnostiche cerebrali, ricerca genetica e studio di nuovi farmaci. Gabriella Gobbi, psichiatra e docente di psichiatria alla McGill university (Canada) fa il punto sui principali argomenti dibattuti: «Il tema maggiormente trattato è stato la depressione, infatti ogni 30 secondi una persona depressa muore di suicidio nel mondo. Entro il 2020 la depressione sarà la prima causa di invalidità nel mondo ancor prima delle malattie cardiovascolari o il cancro. La necessità di trovare nuovi trattamenti per la depressione è dunque di vitale importanza per i nostri sistemi sanitari nazionali».
Quali le ricerche in atto? «Negli ultimi anni la ricerca in Nordamerica si è molto focalizzata sul potenziale sviluppo della ketamina nel trattamento depressivo. John H. Krystal, della Yale university, ha passato in rassegna i numerosi studi clinici che hanno dimostrato come la ketamina abbia un effetto antidepressivo immediato nei pazienti depressi, soprattutto in coloro che tendono al suicidio. Tuttavia la ketamina ha ancora una lunga strada prima che diventi un farmaco correntemente usato a causa della breve durata d’azione e dei numerosi effetti collaterali, inclusa la potenziale induzione di psicosi e, se utilizzata ad alte dosi, ha anche un rischio di dipendenza. La ricerca si sta dunque volgendo verso analoghi della ketamina, 'imitandone' le caratteristiche recettoriali (antagonismo glutamatergico), ma senza i potenziali meccanismi di abuso».
E per quanto riguarda l’elettrostimolazione cerebrale, ci sono novità? «La stimolazione cerebrale profonda (o
deep brain stimulation, Dbs) è un trattamento neurochirurgico utilizzato nei casi di depressione resistente ai farmaci. La Dbs consiste nell’inserire degli elettrodi in un’area del cervello chiamata area subgenualis (Cg25), che si trova nella corteccia orbitofrontale. Gli elettrodi trasmettono un impulso ai neuroni di questa area, inducendo un effetto antidepressivo. Questa tecnica, iniziata alla fine degli anni novanta da Helen S. Mayberg della Emory university di Atlanta, ha già collezionato un’ampia casistica di pazienti. Anche in questo caso i risultati vanno presi con cautela poiché solo il 50% circa dei pazienti risponde e purtroppo non tutti raggiungono livelli di remissione totale della malattia. Inoltre, sottolinea la Mayberg, i pazienti che migliorano sono comunque quelli che seguono anche una psicoterapia, confermando il dato che la psicoterapia ha ancora un ruolo complementare nel trattamento delle malattie affettive gravi. Tuttavia la stessa Mayberg non è esente da dubbi: che pazienti si possono veramente curare con la Dbs e quale sarà l’avvenire di questa tecnica?».
Dunque la psicoterapia oltre l’effetto di sollievo nel paziente ha un ruolo anche curativo? «Si, anche Mayberg qualche anno fa aveva dimostrato con tecniche di immagine cerebrale che la psicoterapia, in modo diverso dagli antidepressivi, può cambiare strutturalmente il cervello. Dunque la psicoterapia non è solo un placebo, ma ha un suo effetto plastico sulla funzionalità cerebrale».
Non le sembra che gli esperti nei due settori (psicoterapeuti e psichiatri) siano poco collaborativi? «Si, ci dovrebbe essere più consapevolezza fra i vari professionisti del settore sul fatto che i farmaci e la psicoterapia sono complementari e non in antitesi, insieme aiutano a curare meglio il paziente depresso».
Il mondo giovanile è sotto la lente degli esperti di salute mentale poiché esposto a comportamenti di dipendenza che alterano le funzioni cerebrali. E nuovi comportamenti a rischio sono all’orizzonte oltre all’abuso di droghe e alcool. «L’uso eccessivo del cellulare, computer e smart phone (telefono intelligente) sta diventando un problema mondiale. La rapida crescita economica dell’Est asiatico ha portato i giovani a un consumo smodato di questi mezzi sino a farne una vera e propria dipendenza psicologica. Questa nuova dipendenza, chiamata Piu (
problematic internet use), interessa il 10-30% dei giovani».
Ci sono dati di ricerca in proposito? «Ricercatori della Catholic university of Korea hanno condotto uno studio su più di 800 giovani, rilevando una correlazione positiva tra Piu, disturbi del sonno e depressione. Ma questi ricercatori si sono spinti oltre: hanno studiato il cervello degli adolescenti dipendenti da telefonini intelligenti a confronto con quelli non dipendenti. I dipendenti da telefonini avevano un vocabolario meno sviluppato e una maggiore tendenza al comportamento impulsivo e l’area del cervello deputata al linguaggio (
left inferior parietal lobule, Ipl) era meno sviluppata. Inoltre le connessioni tra area del linguaggio, corteccia frontale e insula anteriore risultano alterate rispetto ai controlli».
Che fare per limitare questo rischio nei giovani? «Queste ricerche mettono in evidenza i pericoli delle nuove tecnologie per la salute mentale dei giovani e probabilmente delle linee guida mediche per l’uso intelligente dei telefoni intelligenti dovranno nel prossimo futuro far parte dell’educazione dei giovani e forse anche meno giovani».