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DIALOGHI PER FRANCESCO 5. Demetrio: «Viva i Lumi cristiani»

Alessandro Zaccuri venerdì 15 novembre 2013
Sulla spiritualità dei non credenti Duccio Demetrio riflette ormai da tempo, in libri che hanno appassionato molti lettori: La vita schiva (2007), Ascetismo metropolitano (2009), La religiosità degli increduli (2011). Nel suo saggio più recente (La religiosità della terra, appena pubblicato da Raffaello Cortina) l’elezione di Francesco ha fatto breccia quasi di prepotenza. «Era un testo già in preparazione  – spiega l’autore, a lungo docente di Filosofia dell’educazione nelle università milanesi –, ma le parole di questo Papa mi hanno dato un’energia nuova».Che cosa l’ha colpita in particolare?«Il doppio registro della cura e della custodia, evidentissimo fin dai primi interventi di Bergoglio. Sono categorie essenziali anche per la ricerca non credente, della quale continuo a sostenere la necessità. La cura si rivolge all’umano, in noi e fuori di noi, mentre la custodia investe la terra, il creato. Ed è proprio questa sottolineatura a impressionarmi di più. Vede, quella della custodia è una storia taciuta, che emerge in rare occasioni, ma rappresenta la parte migliore dell’ecologismo. Troppe volte ci si è accontentati della semplice difesa e salvaguardia della natura, rifugiandosi magari in modalità New Age, neopagane, oppure in una versione politicizzata dell’impegno ecologista. Raramente la cultura laica ha voluto prendere in considerazione l’urgenza di una meditazione che riconsideri il nostro esistere nel mondo, in relazione con la natura e con la terra».Per fare questo ci voleva Francesco?«Ci vuole, aznitutto, una maggior consapevolezza di una tradizione che è stata finora disattesa. Prima ancora di essere rielaborati da sant’Ignazio, infatti, gli esercizi spirituali hanno rappresentato una pratica diffusa nell’antichità. La versione che personalmente sento più vicina a me è quella della filosofia stoica, rispetto alla quale, non a caso, lo stesso cristianesimo ha avvertito una prossimità possibile. A differenza dell’epicureo, lo stoico si inserisce nella società, assumendosi responsabilità addirittura a livello di governo, ma senza mai rinunciare a una condotta vigile verso di sé. È una disciplina intellettuale che non eccede nelle astrattezze del rigorismo, restando invece fedele alla religiosità della terra. Non vorrei che la mia sembrasse una forzatura storica, ma ho l’impressione che questa forma di stoicismo non si discosti troppo dal modello rappresentato da san Francesco».Siamo di nuovo alla dialettica fra cura e custodia?«Sì, declinata con un’immediatezza di linguaggio che costituisce senza dubbio uno degli elementi più forti nell’azione del Papa. C’è una ripresa di temi che riportano direttamente alla civiltà contadina, in un’essenzialità di parola e di sguardo che si traduce subito in poesia. Francesco, in ultima istanza, offre l’immagine di cristiano che anche un non credente, dentro di sé, attende. Ma tutto questo, aggiungo, non fa altro che aumentare le aspettative verso il processo di trasformazione che la Chiesa è chiamata a compiere».Da dove bisognerebbe cominciare, secondo lei?«Dalle domande essenziali, come al solito. E dall’atteggiamento del dubbio, di cui lo stesso Francesco ha riconosciuto l’importanza. Il dubbio è il punto di partenza ideale per il dialogo fra credenti e non credenti, in una dimensione che definirei di illuminismo cristiano. Si tratta di una visione esistenzialista della vita, simile a quella che si ritrova in molti pensatori del Novecento francese. Un modo di guardare alla realtà che non ne misconosce il versante tragico, ma lo accetta, lo fa proprio. In questo c’è l’opportunità di un rovesciamento che sarebbe proficuo per tutti».A che cosa si riferisce?«Al fatto che, in virtù del dubbio, anche il non credente ha accesso alla dimensione del mistero come a qualcosa di costitutivo del nostro essere ed esistere nel mondo. Il vero dialogo e l’incontro autentico si attuano sul piano dell’esistenza nuda, che è poi il luogo in cui si tace e, tacendo, si riconosce nel silenzio la sola possibilità di comunicazione. Accostarmi a ciò che non può essere detto significa accogliere il divino dentro e fuori di me, implica la coscienza che il divino è ovunque, ma con una connotazione particolare, che non può prescindere dall’idea di un Dio personale».Aspetti, ora sta parlando da credente.«No, sto dicendo che nel momento in cui, da non credente, provo a raffigurarmi l’immagine del divino, penso a qualcosa che parla dentro di me. Il rapporto con la terra è fondamentale, su questo non si discute, ma non appena ci inoltriamo nella dimensione del silenzio ci rendiamo conto che la contemplazione della natura non può sostituire l’esplorazione dell’interiorità».Francesco è anche il Papa delle periferie.«Il suo atteggiamento al riguardo fa giustizia di quei discorsi, intellettualistici e romantici insieme, che negli ultimi anni hanno negato la drammaticità di tante situazioni sociali ed esistenziali. Era un’esaltazione delle periferie che sottintendeva, in effetti, una fuga dalla responsabilità verso le periferie stesse. Con la sua presenza fisica nei luoghi marginali, da Lampedusa in poi, il Papa ci ricorda che non può esistere solidarietà senza amicizia. Che non esiste, insomma, relazione umana senza piena condivisione della propria e dell’altrui umanità».