Si potrebbe ricorrere a una vetusta dizione politologica della Prima Repubblica – «le convergenze parallele» – per spiegare il rapporto tra illustri esponenti del pensiero cattolico del Novecento. Parliamo di Jacques Maritain, filosofo molto vicino a Paolo VI, e Henri de Lubac, celeberrimo teologo esponente di quella
nouvelle theologie (ma il gesuita di Lione respinse sempre questa etichetta) che la Roma pre-conciliare guardava con aperta critica e finanche condanna. Proprio tra i due esponenti dell’
intellighenzia cattolica d’Oltralpe non potevano essere più lontane le posizioni teologiche, pur nell’ortodossia di ciascuno (il filosofo redasse il testo del «Credo del popolo di Dio di papa Montini»; de Lubac fu creato cardinale da papa Wojtyla nel 1983). Già, perchè il pensatore di
Umanesimo integrale era appostato su posizioni neo-tomistiche (almeno inizialmente), mentre l’autore di
Il dramma dell’umanesimo ateo può essere definito più chiaramente un agostiniano. Le dissonanze, i due, non le celavano: nel 1956 il gesuita scriveva a Maritain di aver «letto e riletto più volte, amandolo molto» il suo libro
L’esperienza mistica naturale. Per poi puntualizzare: «Vi aderisco per una grande parte, senza essere sicuro di potervi seguire completamente sino alla fine». Proprio sul tema della natura (e della sovranatura, soprattutto) i due si distanziavano: nel 1961, dopo la lettura del
Peccato dell’angelo – sottotitolo «Peccabilità, natura e sovranatura» – de Lubac osava riprendere Maritain con il tono quasi sferzante dell’insegnante verso l’allievo: «Un piccolo dettaglio – gli scrisse nel
post scriptum di un messaggio epistolare –. Suppongo che il titolo del volume non sia vostro. Ma perché questa parola "sovranatura" che invade la nostra teologia moderna? Non ha nulla della tradizione. La vera scolastica lo ignora. Mi pare una grossa confusione». Le differenze tra i due non devono far pensare a un’opposizione sprezzante o che rifiuta le posizioni dell’altro. Anzi: è quanto sottolinea il cardinale di Lione Philippe Barbarin nella prefazione di queste
Corrispondance et rencontres (16 missive inedite) tra Henri de Lubac e Jacques Maritain, che le Editions du Cerf hanno da poco pubblicato in Francia (pp. 134, euro 14: le lettere sono in maggioranza a firma di de Lubac). Barbarin parla di una capacità dei due intellettuali di «non abolire le differenze di punti di vista totalmente legittimi, insieme all’unica preoccupazione di cercare, scoprire e servire la verità». Un esempio, il «dissenso» teologico del duo transalpino, eloquente nel rifiutare un certo «conformismo intellettuale o la formalizzazione teorica che pretendeva – afferma ancora il cardinale – di fare la sintesi di molteplici accenti e prospettive che invece arricchiscono la Tradizione vivente». Comunque i punti di disaccordo tra i due intellettuali cattolici non sono rari. Ad esempio la questione Teilhard de Chardin. Maritain aveva avuto per il teologo-cosmologo parole molto dure ne
Il contadino della Garonna, mentre riconosceva a de Lubac (8 marzo 1967) di essere, rispetto al confratello gesuita, «vicino all’intimo della sua vita spirituale, e questo ispira un profondo rispetto per la fedeltà con la quale lei difende la memoria di Chardin. A me sono le sue idee, il suo sistema e la sua influenza intellettuale che preoccupano». Ancora: il 10 agosto 1969 è di nuovo Maritain a segnalare rispettosamente «un leggero dissenso» a de Lubac sul tema del credere in Dio e credere la Chiesa: «Credere nella Chiesa non mi pare impreciso e per nulla condannabile», afferma il filosofo a differenza delle posizioni del futuro porporato. Fin qui la divergenze. Fu invece nel post-Concilio che i due giganti del pensiero cattolico si ritrovarono su posizioni consonanti: sintonia anticipata, quasi un prologo, nella prima lettera di de Lubac all’intellettuale «montiniano», missiva che pubblichiamo qui insieme a un messaggio più recente del filosofo. L’elogio del gesuita si riferisce alla condanna che Maritain aveva fatto della «guerra santa» nell’ambito del conflitto civile spagnolo: «A differenza di alcuni teologi, Maritain rifiutava l’idea che il concetto di "guerra santa" potesse giustificare il sostegno al generale Franco», annota il curatore Jean-Miguel Garrigues. Sono più tarde però le consonanze effettive tra i due corrispondenti. Nel 1970 il religioso confida al filosofo la sua approvazione per la denuncia di Maritan circa «l’abuso di assemblee, commissioni, comitati, uffici – di quello che si inizia a chiamare (che orrore!) lo strumento dell’episcopato! Bisogna assolutamente che qualche vescovo, dotato di una forte personalità, osi affrancarsene». Ma i due convergono nettamente soprattutto sul rischio di quella che de Lubac drammaticamente chiama (il 13 marzo 1967: il concilio si è concluso da soli 2 anni!) «un’apostasia collettiva». Anzi, ancor più forte risulta l’allarme dell’antico
nouveau theologien, le cui intuizioni (soprattutto la ripresa dei Padri della Chiesa e il ritorno alle fonti del cristianesimo) erano state fatte proprie dal Concilio. Dopo la lettura de
Il contadino della Garonna che, come noto, faceva trasparire l’amarezza del «progressista» Maritain per gli esiti (dolorosi) del post-Concliio, de Lubac afferma: «A mio umile avviso, la vostra diagnosi sulla crisi attuale non è abbastanza rigorosa: si tratta di qualcosa di ben più grave che di "sottigliezze" e di "follie". Esiste un movimento di fondo, che, se gli si cede, ci condurrà in poco tempo all’apostasia collettiva».