Questa volta non si salva veramente nessuno. Di sicuro non i quattro sacerdoti che vivono nella casa-comunità della Boca, piccola località cilena affacciata sull’oceano. Ma questo si capisce fin dalle prime battute del nuovo film di Pablo Larraín, il durissimo
Il club( da oggi nelle sale). Quelli relegati laggiù sono preti indegni, si sono macchiati di pedofilia e di altri orribili delitti, difficile che la storia riservi loro un lieto fine. Guardate però che cosa succede al quinto che dovrebbe aggiungersi al gruppo. Non fa in tempo ad arrivare e subito si trova tallonato da una delle sue vittime, un vagabondo che si fa chiamare Sandokan e che ora proclama a gran voce, cantilenando in mezzo alla strada, i dettagli degli abusi ai quali è stato sottoposto, con un linguaggio straziante per precisione scientifica e sconcezza degradante. Qualcuno ha le pessima idea di passare un revolver a padre Matias, il carnefice braccato, ma lui, anziché adoperarlo per impaurire il provocatore, lo rivolge contro se stesso, fa partire il colpo, crolla morto sulla stradina della villetta. Se non i preti, almeno suor Mónica potrà salvarsi? Niente da fare, perché anche la religiosa che si prende cura dei reietti ha un passato oscuro, di cui tuttavia non si assume la responsabilità. E anche lei, quando sarà il momento, non esiterà a unirsi alla congiura che dovrebbe togliere di mezzo, una volta per tutte, l’ingombrante Sandokan. Resta un’ultima speranza: padre García, gesuita e psicologo, autorevole quanto aitante. È incaricato di indagare sul suicidio inspiegabile (così lo presentano suor Monica e i suoi complici), ma in realtà il suo compito è di fare piazza pulita della casa e delle altre che, a quanto pare, sono presenti nel Paese. È un esponente della “nuova Chiesa”, come ripetono beffardamente i confratelli, e per un po’ sembra quasi farcela. Raccogliendo l’involontaria confessione di padre Ramírez – il più anziano del “club”, al confino per una colpa di cui nessuno ricorda più la natura – riesce a risalire al devastato Sandokan, capisce la congiura ordita ai danni di quest’ultimo ma, anziché smascherarla, preferisce a sua volta dimenticare. Una punizione riesce a escogitarla, ma solo in senso morale. Per il resto, inutile attendersi giustizia. Bisogna tornare indietro di molto tempo, forse allo spietato
Scene di caccia in Bassa Baviera del tedesco Peter Fleischmann (1969), per trovare un film altrettanto intransigente nel denunciare la bassezza dell’omertà, dell’ipocrisia e della violenza psicologica. Regista non ancora quarantenne e già amatissimo dalla critica per i precedenti
Post Mortem (2010) e
No. I giorni dell’arcobaleno (2012), Larraín firma un’opera come al solito impeccabile sul piano tecnico, basata almeno in parte su un sofferto lavoro di documentazione. È il primo ad affermare di non aver incontrato, in vita sua, solo sacerdoti come quelli descritti nel
Club, ma l’impressione è che la sua personale poetica, fortemente segnata dai drammi della recente storia cilena, non contempli alcun elemento di espiazione, tanto meno di redenzione. La resa artistica è altissima, anche grazie alle prove di attori come Roberto Farías nel ruolo di Sandokan, di Antonia Zegers (moglie di Larraín) in quello dell’ambigua suor Mónica e, in particolare, di Alfredo Castro, al quale tocca la parte del machiavellico padreVidal, senza dubbio il più complesso tra i personaggi. Cupezze dostoevskiane, ma questa volta al delitto non segue il castigo e la scena finale, con l’auto di padre García che si allontana solitaria, è il segno di una sconfitta senza appello. Anzitutto per i credenti, sarà il caso di precisare.