Arte. Edgar Degas, a Parigi una rassegna per il centenario della morte dell'artista
Edgar Degas, Autoritratto (particolare)
Il 2017 poteva essere un anno irripetibile, ma dovremo aspettare un altro secolo perché ci sia ridata l’occasione che questa volta non è stata colta. Toccherà a qualcun altro coglierla al balzo, perché riguarda un punto nodale della conoscenza sulla scultura moderna. Anno simbolico, ovviamente, e si potrà rompere l’incantesimo dedicandosi al tema senza aspettare un prossimo grande anniversario. Va da sé.
È così che stanno le cose: Parigi, 27 settembre 1917 : muore Hilaire-German-Edgar Degas; Meudon, 17 novembre 1917 : muore Auguste Rodin. Nello spazio di due mesi, mentre infuria la Grande Guerra, la Francia perde due grandi artisti, i due più importanti scultori dell’epoca. Chi sia il più grande fra i due, per me non è dubbio: Degas. Ma non è questo il punto. In marzo il Grand Palais ha allestito con grande anticipo la mostra del centenario di Rodin, mostra pretenziosa, confusionaria e priva di un pensiero critico che ponesse ordine nelle questioni aperte della scultura moderna. Il 28 novembre, otto mesi dopo, il Museo d’Orsay ha inaugurato – in ritardo questa volta sulla data – un'antologica su Degas che non si connota, al pari di Rodin, come “l’exposition du centenaire”, bensì come un più lieve “Hommage à Degas avec Paul Valéry”; con lieve alludo al coinvolgimento ufficiale della Francia in una mostra che sembra, fin dal titolo vero e proprio, Degas Danse Dessin, più d’occasione che di studio. Riprende infatti il titolo del celebre saggio dello scrittore francese, pubblicato dopo la morte dell’artista, dove Valéry svolgeva l’impegnativo paragone fra Degas e Leonardo.
Come mai non si è qualificato anche questo omaggio come “exposition du centenaire”, formula con cui i francesi connotano ciò che li identifica con la Storia? La risposta la dirò soltanto alla fine. Se Rodin pone oggi questioni inerenti lo studio specifico della sua opera e delle influenze che può aver avuto su alcuni scultori successivi, Degas rappresenta invece ancora un caso tutt’altro che chiarito dagli storici e dai critici (non tutti sanno, per esempio, che fu anche un fotografo geniale e un poeta i cui sonetti erano tenuti in gran conto da Mallarmé – e scusate se è poco –, un melomane raffinatissimo, un mezzosangue col cinquanta per cento di geni italiani – si esibiva nelle canzoni napoletane con grande trasporto –, e un sagace aforista).
Per me fu il più grande scultore del suo tempo – lo scrisse subito Renoir e alla fine obtorto collo lo ammise anche Rodin. Degas appartiene alla schiera dei pittori che uscendo dai confini hanno innovato l’arte della scultura (da Géricault a Picasso e Matisse, per intenderci); era un grande sperimentatore, non si arrendeva di fronte a niente, si annoiava molto e l’unica strada che lo rendeva meno malinconico era quella del lavoro e della ricerca dell’impossibile. Albert Bartholomé, l’amico incisore a cui aveva insegnato la scultura perché potesse realizzare il monumento alla moglie morta, confessò che non riusciva a convincere Degas a rispettare le regole fisiche che governano anche la scultura, cioè quelle dei baricentri: non possono essere violati senza che l’opera ceda o si accartocci su se stessa (parliamo di modellato in cera o argilla oppure gesso). Ma per Degas violare un baricentro voleva dire trovare il punto di equilibrio sovrannaturale dove materia e immaginazione si corrispondono e danno scacco alla natura. Non a caso i temi ricorrenti sono ballerine e cavalli.
Le sue sculture, frutto di una lunga elaborazione, si mostrano invece simili a istantanee, a qualcosa che viene fermato sulla retina dell’occhio e subito dopo decade nell’abisso della memoria da cui soltanto l’intuizione del genio saprà ripescarla e darle quella gloria che la condizione terrestre – la pesanteur – gli nega. I corpi gloriosi, di cui scrisse Gaëtan Picon alludendo alla carne di Raffaello, sono anche quelli della leggerezza e della castità di sguardo di Degas. In fatto di disegno Degas era secondo me superiore allo stesso Ingres, che aveva ammirato e frequentato durante i suoi anni giovanili. Il suo segno non è quello del bisturi di Ingres, che incide i corpi e i volti senza che essi si accorgano di quel taglio da cui dovrebbe uscire il sangue ma che resta invece trattenuto sottopelle; un segno, ecco, emostatico o come quello del patologo, tracciato su ciò che è gelido e privo di vita. Degas sa che da un momento all’altro il bisturi cederà alla tentazione di far sentire al corpo la propria carne; la sua linea, il suo segno, raffinatissimo, vibra come se fosse attraversato dal fantasma di quei corpi che sono, in realtà, esseri viventi: gli studi per il quadro di Semiramide sono abbozzi di personae del dramma – Degas aveva studiato al liceo Louis-le-Grand, dove si leggevano i poemi di Christine de Pizan, che alla regina assiro-babilonese aveva dato un posto rilevante nella sua Cité des dames –, e io credo che nel dipinto finito si senta proprio la memoria della grande scrittrice amica di Jeanne d’Arc e del teologo Gerson.
Il disegno sublime e talvolta sfarinato di Degas esce come il fantasma di una storia nello studio della baronessa Bellelli e le due figlie, eseguito durante i soggiorni partenopei dell’artista. Nel nudo, a cui Parigi pochi anni fa dedicò una splendida mostra, si avverte anche il tormento dell’artista per la resa di un tema che, per quanto il segno sfiori la bellezza più struggente, manca ancora di quella densità plastica che è soltanto della scultura, del suo nascere dal pollice e dalla mano (secondo cervello dell’uomo, secondo Kant). Ma questo limite “tattile” – intendendo con questo termine un valore plastico connesso con la vita più che col canone ereditato, o meglio come viatico al rinnovamento di quello stesso canone – Degas cerca di risolverlo disegnando e dipingendo donne che fanno il bagno, riprese nelle loro funzioni più private senza mai cedere alla perversione dell’occhio (come se tenesse conto degli ammonimenti di sant’Agostino sulla hybris dello sguardo); si dedica ai petits-rats, le stelline del corpo di ballo dell’Opéra, le studia mentre si tolgono le scarpette, si massaggiano i piedi e le gambe dopo le prove, quando provano passi di danza, mentre si svestono, e nella scultura questa ricerca diventa subito architettura: non solo quella formalmente composta, ma quella del corpo nello spazio, del suo movimento suggerito là dove il medium – la materia da plasmare – tende alla stasi. In questo la mostra delude molto, mettendo in scena una decina di ballerine, la cui magia sembra dissolversi mentre in un televisorino si vede il film dei Lumière della Danse serpentine del 1899.
Lo stesso accade con le sculture dei cavalli, il cui movimento aveva studiato sulle cronofotografie di Marey e Muybridge. Ma due disegni di cavalli presi di profilo hanno la bellezza metafisica, sia pure non finita, dei cavalli di Giulio Romano a Mantova. Conviene, qui, citare Valéry quando mette in chiaro che lo spazio, nei movimenti delle danzatrici di Degas «non era che il luogo degli atti... esso non contiene il loro oggetto ». Ricordiamoci che Degas potrebbe essere il modello su cui lo scrittore francese ha configurato il personaggio di Monsieur Teste, colui che steso sul divano si “vede vedersi” mentre cade nel sonno, ovvero descrive l’estasi che lo conduce fuori da se stesso, come certe esperienze di ritornati dalla morte che riferiscono di essere usciti dal corpo e di aver visto dall’alto ciò che accadeva loro mentre gli altri cercavano di rianimarli. Degas dipinge come chi è tornato dalla morte, come se la pittura, il disegno, la scultura non nascesse per lui dall’occhio, ma dallo sguardo interiore che grazie alla memoria vede come se si trovasse fuori dal suo corpo. Degas meritava ben più che un omaggio. Personalmente auspicavo un confronto dialettico con Rodin, non per stabilire chi sia il più grande, ma per mostrare che la scultura della prima metà del Novecento ha avuto ben due padri: uno che ha giocato sulla riforma del canone plastico ereditato per essere il nuovo Michelangelo; l’altro che ha rivelato come l’arte sia soprattutto il frutto di un istante, di quell’intensità che trasforma la materia in rivelazione della vita e della sua imperfezione sublime.
Purtroppo è mancata sia la mostra del centenario per Degas, sia il confronto fra i due grandi morti nel 1917. E qui non voglio sottrarmi al perfido dubbio che fa pensare male: Degas ebbe un torto che i francesi non possono perdonare: il suo antisemitismo nell’“Affaire Dreyfus”. Non perdonano perché vogliono rifarsi la verginità. L’antisemitismo di Degas non nasceva da discriminazioni razziali, ma dagli stereotipi culturali e sociali: era quasi un vezzo da misantropo. Del resto, Degas ebbe anche amicizie in importanti famiglie ebree (gli Halévy, per esempio). Eppure, questa macchia – oggi appesantita dalle vicende del Novecento – basta a mettere la sordina al suo centenario.