Defunti . Purificati nel mare di Varkala
Sulla spiaggia di Papanasam uomini e donne si preparano alla veglia. Dagli altoparlanti musica diffusa, preghiere e brani di letture vediche. Poliziotti che perlustrano, telecamere della tv che si sistemano, mentre la folla aumenta lentamente. I grandi fari pinzati sui pali di legno illuminano a giorno il bagnasciuga in questa notte senza luna. Chi guarda il mare verso il nero del cielo, chi dorme sdraiato su una coperta, chi gioca e chiacchiera con gli amici. Ogni tanto un’onda lunga risveglia dal torpore qualche anziano appisolato.
Come ogni anno a Varkala è una sera speciale. In tutta la regione del Kerala lo è. Il 2 agosto alle 3 di notte inizia il Bali Dharpanam, il rito celebrato in memoria delle anime degli antenati. Dura dodici ore, fino alle tre del pomeriggio del giorno dopo. È il corrispettivo della commemorazione dei defunti, che per i cristiani cade oggi e nel Kerala si è celebrata il 2 agosto.
Tutti preparano il loro riquadro di spiaggia, delimitandolo con fili colorati, picchettati a terra. Ogni quadrato ha un cartello che identifica il gruppo che lo occupa, la famiglia, o il tempio a cui fa riferimento. Arrivano a decine di migliaia, a Varkala e in poche altre località vicine, perché questa è la più sentita manifestazione religiosa di tutto il Sud dell’India. È la notte del Vavu, quando si aspetta la luna nuova, sempre a cavallo fra luglio e agosto, cioè nell’ultimo mese del calendario Malayalam, detto Karkida. Gli induisti raggiungono le sponde dei fiumi o la riva dell’Oceano per offrire il "Bali" alle acque e poi bagnarsi, liberando dai peccati le anime dei loro cari.
Il significato profondo di questa religione è, in ultima analisi, dare un senso alla morte. Capirla, comprenderla, per quanto difficile. Il percorso di fede si realizza nella fiducia che la morte non sia la fine di tutto, ma che s’inserisca in un ciclo infinito su questo mondo e nell’altro. Ciò che possiamo fare, sulla Terra, è vivere secondo i dettami della fede e onorare i defunti. Ma il passaggio più difficile, al quale tutte le religioni dedicano una grande attenzione, è il distacco dalla vita altrui, il saluto ai defunti. La dipartita di un parente o di un caro amico è la sperimentazione più prossima che possiamo avere della morte, e nell’Induismo questo saluto è lungo quanto un cadavere che brucia, il giorno dei funerali, e prosegue poi nelle cerimonie in cui i vivi dialogano con i morti, pregano e fanno offerte per loro.
Il Bali Dharpanam è un dovere dei figli verso i genitori e sta a significare che la loro relazione non ha mai fine: è questo uno dei cardini che costituisce il concetto di integrità della famiglia indiana. Dunque la morte unisce. Non solo le famiglie, che infatti si raggruppano nei piccoli appezzamenti di spiaggia, ma tutti i fedeli che qui si accalcano a decine di migliaia, uniti dalla fede nel mare, quale rappresentante simbolico della divinità, per condividere le parole, i tempi del rito, la scansione dei gesti. Ecco gli elementi fondamentali di questo grande momento di purificazione collettiva: comprendere l’appartenenza dell’uomo alla natura, dedicare a essa un’offerta e per suo tramite raggiungere gli dei, con la preghiera comune fuori, sulla riva del mare, e dentro, al tempio di Sreejanardhana Swami, accessibile solo ai fedeli, che si trova a poche centinaia di metri sulla collina.
Varkala, per il resto dell’anno, è una piacevolissima località turistica, la bella passeggiata sul sentiero lungo il mare, passando sopra la scogliera, è costellata di botteghe e piccoli negozi per turisti e bei ristoranti. Nei bar affacciati sull’orizzonte, servono birre nascondendo la bottiglia sotto il tavolo: non è proprio vietata, ma nemmeno gradita, soprattutto nei giorni di festa. Appesi agli angoli della via principale, due grandi manifesti riportano le fotografie di una ventina di ricercati per reati di droga. Tutti guardano curiosi, qualcuno commenta.
Ma il giorno del Bali Dharpanam la folla si concentra su altro. Alle otto di mattina la spiaggia è già sovraffollata, dalle stradine in alto si riversa un fiume ininterrotto di persone. Camminano lentamente e chiacchierano. Gli uomini indossano solo il dhoti, una sorta di pareo tenuto attorno ai fianchi, bianco o azzurro chiaro; le donne vestono il sari. In mezzo alla folla si distinguono alcune geometrie ripetitive: un gruppo di fedeli si inginocchia di fronte a un sacerdote del tempio e ai suoi aiutanti. Viene loro distribuita una foglia di banano come base, poi petali di fiori e un’erba sacra chiamata dharba, che viene disposta a triangolo, e sopra di essa si posa del sesamo nero, riso cotto e annaffiato, un’altra erba detta cheroola, pasta di sandalo e di nuovo acqua, sempre distribuiti dai sacerdoti.
A ogni ingrediente segue un momento di preghiera individuale, ciascuno stretto nelle spalle e concentrato, e un movimento rapido delle mani attorno alla testa come per cospargersi il capo di un invisibile unguento. Le erbe vengono infine intrecciate fino a creare un anello, il pavithram, e la foglia di banano viene richiusa. Tutti si alzano, tenendo la foglia con due mani posata sopra la testa, girano su se stessi due volte per un’ultima preghiera collettiva e poi in fila si dirigono verso il mare. Qui la folla è ancora più densa, le file ordinate dei fedeli la fendono fino a raggiungere le onde vivaci, si voltano spalle all’acqua e gettano indietro il Bali, cioè la loro offerta benedetta. La foglia di banano si apre e disperde le sue componenti, mentre chi l’ha gettata si lava nelle acque.
I bagnini, disposti ogni venti o trenta metri, aiutano gli anziani e i più deboli a risalire fra le onde impetuose e recuperano ciabatte e altri oggetti dalla schiuma. Il fischietto dei poliziotti ammonisce i più temerari che si addentrano troppo, e nel tempo in cui un gruppo risale per tornare verso il tempio, altri gruppi scendono al mare per gettare il loro Bali.
La ritualità è circolare e continua, quando la percepisci, ti accorgi che questa enorme folla si muove con lo stesso ritmo della risacca, ordinata e flessuosa, per nulla casuale. In questo movimento collettivo la sacralità appare evidente e sembra di sentire le anime che vengono sciolte dalle catene terrene per raggiungere il Moksha, la liberazione. Forse è solo suggestione, immaginazione. Ma come diceva Platone, l’immaginazione mette in connessione il mondo sensibile con quello delle idee. È il tramite per una realtà ultraterrena da cui tutto origina.