Dibattito. Decolonizzare i musei, il contributo della Chiesa
Una sala del Museo "Anima Mundi"
Pubblichiamo un estratto del contributo che Irene Baldriga, docente di Museologia e Politiche del Museo alla Sapienza diRoma, terrà nell’ambito del convegno internazionale di studi “Le Voci del Museo” - Roma, Palazzo Barberini e Università la Sapienza, 17 e 18 settembre.
L’avvio di un effettivo dibattito sull’alterità culturale e sul passato coloniale emerge in Italia tardivamente rispetto al resto d’Europa e del mondo. La cornice politica e socio-economica sostanzia in parte le ragioni di questo indubbio ritardo, che è possibile documentare sia attraverso coordinate sistemiche – derivanti per esempio dal posizionamento del nostro Paese durante il periodo della guerra fredda – sia in una prospettiva strettamente legata all’evoluzione della riflessione critica e metodologica in campo storico-artistico e museale.
La mia riflessione intende essere uno spunto di approfondimento, auspicabilmente trasversale, rispetto al confronto che si è aperto da alcuni anni sulla decolonizzazione dei musei. Narrazioni e significazioni controverse richiedono uno sforzo di contestualizzazione storico-culturale delle collezioni e dovrebbero scongiurare la pratica della semplice imitazione di buone pratiche, di soluzioni coerenti con la formula del “politicamente corretto”. Per un verso si tende ad adottare proposte “correttive” esplicite, tali da testimoniare l’intento di denunciare le ingiustizie e i crimini compiuti dall’Occidente; dall’altro, si commette spesso l’errore di reiterare formule preconfezionate, sottraendosi alla necessità di un autentico confronto con il passato di cui ciascun popolo e ciascuna nazione sono effettivamente eredi. Il tema è di grande attualità e interesse poiché riguarda sia la consistenza materiale e il possesso di oggetti sottratti a popoli sottomessi con la forza, sia la riformulazione dei linguaggi e dell’ermeneutica con cui i patrimoni dell’alterità vengono tradizionalmente trattati, manipolati ed esposti nella prospettiva unilaterale dei “conquistatori”.
In tale impasse interpretativa, si concentra oggi il confronto sul futuro di molte raccolte e sulle loro effettive potenzialità di comunicazione con il grande pubblico. Il ricorso ai linguaggi dell’arte contemporanea, riversato dalle migliori esperienze delle esposizioni temporanee – e ancora oggi molto vitale – risulta in molte occasioni come forzatura, come intervento meramente allusivo e non come esplicito atto di restituzione (almeno simbolica) delle opere e dei materiali ai contesti di provenienza, né di documentazione delle violenze che spesso le hanno condotte all’interno dei nostri musei.
Al di là di recenti dibattiti sulle controversie legate alle restituzioni, un esempio di grande interesse, per il suo significato politico e culturale, è quello della riapertura del Museo Etnologico Vaticano: fondato nel 1925, ha assunto la nuova denominazione di Museo Etnologico Anima Mundi per volontà di papa Francesco, che ne ha voluto la riapertura in occasione del Sinodo sull’Amazzonia, indetto nel 2019 poco prima della crisi pandemica. Nonostante la complessità storico-culturale rappresentata da quel patrimonio, va rilevata l’opportunità dell’evento espositivo, da intendersi come avvio di un processo di ripensamento e di rigenerazione di una raccolta che può sussistere solo nella formula dell’inevitabile attualizzazione, condivisione e reinterpretazione delle sue origini e della sua consistenza. Colpisce nella nuova denominazione (non più “museo etnologico missionario”, ma “Anima Mundi”), l’intento di riformulazione semantica, da cui si è scelto di partire quasi in sostituzione di una proposta sistematica di riallestimento, che avrebbe richiesto un processo molto più articolato e complesso (ma che auspichiamo prossimo a una effettiva realizzazione). L’operazione intrapresa punta a orientare il comportamento del visitatore, accompagnando la sua esplorazione verso un atteggiamento di ascolto, non di appropriazione simbolica (cioè di subordinazione dell’oggetto allo sguardo dominatore dell’occidente, sostanzialmente implicito nella stessa modalità di esposizione “dell’altro” in una teca museale), ma di incontro.
È importante riflettere sul fatto che il discorso postcoloniale in Italia prende avvio in modo consistente soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, nel quadro di un fondamentale cambiamento delle politiche missionarie e di assunzione di responsabilità da parte della Chiesa nei confronti dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli africani. Unica altra eccezione, nell’Italia di quegli anni, fu la voce sovente dimenticata di Carlo Ludovico Ragghianti, che con grande lungimiranza sollevò l’urgenza e la necessità di superare quelli che definiva i «pregiudizi di un'etnologia evoluzionistica credente nella costituzionale “primitività” alogica ed elementare».
L’odierno dibattito sul riallestimento e sulla sopravvivenza del “difficult heritage”, cui incontestabilmente il patrimonio coloniale appartiene, può fortemente giovarsi delle premesse di quel fecondo contesto di riflessione che non a caso incontrò un vero momento di svolta nel 1989: fu nell’anno cruciale della caduta del blocco sovietico che il Centre Pompidou di Parigi proponeva la mostra “Magiciens de la Terre”, prima occasione di controversa, provocatoria e ancora irrisolta apertura verso un’arte globale e senza confini.
Come auspicava Ragghianti, è di un cambio di paradigma che necessitano principalmente i musei, ma soprattutto gli studi accademici e le politiche culturali, se davvero si intende perseguire quella rivoluzione degli sguardi che di fatto sostanzia il concetto stesso di decolonizzazione.