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Intervista. Daniele Gatti: Debussy, quadri fiorentini

Pierachille Dolfini mercoledì 17 giugno 2015
Il titolo è francese, Pelléas et Mélisande. L’opera più famosa di un autore che ha portato nel mondo lo stile francese, Claude Debussy. «Ma il cast è tutto italiano», annuncia orgoglioso Daniele Gatti. A cominciare, appunto, dal direttore d’orchestra. «Il regista è Daniele Abbado. Pélleas è Paolo Fanale, Mélisande Monica Bacelli, Gouland Roberto Frontali, Arkël Roberto Scandiuzzi, Geneviéve Sonia Ganassi», racconta Gatti che domani (repliche sino al 25 giugno) sarà sul podio del Teatro dell’Opera di Firenze per il titolo più atteso dell’edizione numero 78 del Maggio musicale. «Due anni fa, quando mi hanno invitato a dirigere un’opera a chiusura del festival di quest’anno, stavo suonando tanto Debussy ed era da poco uscito il disco dedicato al compositore, inciso con la mia Orchestre national de France. Mi è venuto spontaneo pensare a Pelléas et Mélisande, titolo che non avevo mai diretto, tanto più che mancava da molti anni dal capoluogo toscano. A convincermi è stata la possibilità di affrontarlo con un cast tutto italiano».Quale sarà l’effetto, maestro Gatti?«La sfida sarà vedere come la sensibilità e il gusto italiano possono rileggere un capolavoro che è profondamente radicato nella cultura francese. Che non è molto diverso da quello che avviene all’estero quando affrontano, con direttori, registi e cantanti locali, il nostro repertorio lirico, dando anche un taglio inaspettato. Mi viene in mente quando dirigo Verdi in Francia dove le orchestre hanno fatto tesoro della presenza a Parigi del maestro e conservano ancora questa impronta. Ma non dimentico che Debussy ha influenzato anche l’Italia: Puccini, dopo la Tosca, ha attinto molto al Pélleas. Penso poi al Maggio che è sempre stato un festival con una forte vocazione innovativa, un laboratorio dove sperimentare nuove strade dell’interpretazione musicale».Quale quella che avete scelto per Debussy?«Per molti di noi è la prima volta con il Pelléas et Mélisande: il bello delle prove è stato che ciascuno ha messo in campo curiosità e voglia di scoprire questo capolavoro, apparentemente lontano dalla nostra sensibilità. Il teatro d’opera al quale siamo abituati è fatto di contrasti e contrapposizioni tra i personaggi che creano la storia e la tensione drammatica, qui invece siamo di fronte a un susseguirsi di quadri chiusi. Abbiamo lavorato su una drammaturgia psicologica che segue l’evoluzione dei personaggi attraverso i vari quadri».Sul palco la classica storia di amore, gelosia e morte.«Il dramma che Debussy ha tratto da Maeterlinck è ricco di elementi simbolici, ma la traduzione di questi segni non la offriamo direttamente, la lasciamo allo spettatore che è stimolato così a porsi domande di fronte a quello che ascolta e vede. Non penso sarà difficile: quando dirigo un’opera cerco la chiarezza dell’esposizione, non mi piacciono sovrastrutture che distraggano. Anche qui sarà così, con il racconto che precede lineare e profondamente moderno».E musicalmente cosa si ascolta?«Il Pelléas può apparire un’opera con un’unica tinta, in realtà non è così, basta seguire le indicazioni del compositore per rendersi conto come nella partitura ci sia una scrittura molto moderna per l’epoca. Gli artisti si trovano ad affrontare un tipo di vocalità nuova, niente belcanto con infiorettature di note su una stessa parola, ma ad ogni sillaba corrisponde una nota e la parola in musica si fa teatro. La trama orchestrale, mettendo in campo dinamiche che possono rendere le melodie meno opache racconta, sottolinea in modo discreto, contrappunta i sentimenti dei personaggi e crea una drammaturgia musicale che fa superare il rischio, che comunque ci può essere, di una certa staticità della vicenda. Quando suono Debussy non cerco a tutti i costi colori tenui e trasparenti, sarebbe riduttivo relegare le pagine del compositore solo a queste suggestioni impressioniste. Una visione che condivido con Daniele Abbado con il quale lavoriamo all’allestimento fiorentino da più di un anno».A proposito di Firenze, da tempo si fa il suo nome come direttore musicale del Maggio.«Per ora non c’è nulla. Sono qui con Pélleas et Mélisnade e sono contento di lavorare ad un progetto interessante e condiviso. Che è quello che cerco quando accetto di dirigere un’opera».Di certo dal prossimo anno guiderà il Concertgebouw di Amsterdam.«A questo punto della mia vita ho bisogno di un’orchestra che mi aiuti a compiere i miei desideri, a far diventare musica le mie idee. Non ho bisogno, come accade a tanti giovani, di una testa d’ariete per sfondare e affermarmi. Ecco perché il Concertgebouw mi sembra sia arrivato al momento giusto. Se guardo indietro ritengo che tutte le tappe del mio percorso siano state calibrate alle mie possibilità del momento. Non sono mai salito su un podio sovradimensionato per me e questo è stato una grandissima occasione di crescita. A cinquantatré anni comincio a raccogliere quello che ho seminato in trent’anni. So che sembra paradossale un discorso del genere oggi quando molti giovani direttori si vedono già proiettati sul tetto del mondo a venticinque anni. Non ho impostato così la mia carriera: i primi anni sono stati quelli della formazione, il tempo di arare e di seminare per poi raccogliere i frutti. Il Concertgebouw è uno di questi».Che musiche metterà sul leggio dei musicisti olandesi?«Continuerò a frequentare il repertorio di questa orchestra perché non è giusto che un direttore non tenga conto della storia. E ad Amsterdam la storia è stata fatta da Brahms, Mahler, Bruckner, Strauss. Continuerò a frequentare questo repertorio, affiancato a quello che ho affrontato in questi anni, la musica francese, ma soprattutto il patrimonio musicale italiano portando compositori che hanno fatto grande la nostra musica, ma che spesso cono dimenticati, penso ad esempio a Goffredo Petrassi».Ad Amsterdam il suo predecessore, Mariss Jansons, ha istituito corsi per direttori d’orchestra. Si metterà anche lei a disposizione dei giovani?«Certo, come ho sempre fatto. Ho tenuto corsi a Fiesole e nel 2016 farò un master all’Accademia Chigiana. Le mie prove, poi, sono sempre aperte. Mi scrivono molti giovani musicisti e li ospito sempre volentieri in camerino per parlare di musica. Apro sempre a chi bussa alla mia porta. E lo faccio in modo naturale, senza cercare nessuna spettacolarizzazione».