Idee. Debray, il dialogo, le ragioni e i rischi
«Permettetemi un piccolo esame di coscienza su questa pia formula, l’ultimo dogma di un mondo senza dogmi, vale a dire “il dialogo delle civiltà”. Che cosa vuol dire questo mantra, e che fare per esorcizzarlo?». Con queste parole Régis Debray (foto a sinistra) illustra nel volume Il dialogo delle civiltà. Un mito contemporaneo (Marietti 1820, pagine 96, euro 12,00) il carattere spesso contraddittorio di un dialogo che pretenda di essere autentico, in particolare del dialogo interreligioso tra cristianesimo, ebraismo e islam, segnato da difficoltà che una schietta esperienza dialogica fatalmente implica. Il testo di Debray – di cui pubblichiamo alcuni brani – offre un punto di vista “smitizzante” rispetto a quello prevalso dopo l’11 settembre. All’intellettuale francese replica Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose: "Cerchiamo l'essenziale, ma rispettando le diversità".
Ebbene sì, ammettiamolo. Se il ruolo delle cerimonie è quello di aiutare gli uomini a non massacrarsi a vicenda – basta leggere il giornale o accendere la televisione per interrogarsi sull’utilità delle nostre tavole rotonde, simposi, convegni, summit, conferenze, incontri, comitati, piattaforme e così via. Vogliamo ricordare le caricature di Maometto? Le reazioni al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona? L’assassinio di Theo Van Gogh ad Amsterdam? L’ecatombe in Iraq? Le stragi in Afghanistan e gli omicidi confessionali in Turchia? L’aumento al Nord, e anche da noi, di xenofobie, gelosie comunitarie e concorrenze vittimarie?È evidente che la strada non tiene conto delle nostre perenni esortazioni alla pace, alla tolleranza e alla fratellanza. E da qui un crescente scetticismo. Fatica. Sterilità. Usura. Moine. Compiacenze e ridondanze. Sono questi i sentimenti, sempre meno taciti, che ormai ispirano agli spiriti meno esigenti questo dialogo delle culture tanto noioso quanto decantato, tanto prevedibile quanto imprevidente, di fronte alla scarsa influenza delle nostre liturgie semestrali, talvolta fotogeniche, sull’andamento delle cose. Ecco lo stato attuale delle cose, quanto meno a livello psicologico. Non un campo di macerie, che presupporrebbe costruzioni preesistenti, ma piuttosto delle sabbie mobili, da cui nulla esce e in cui tutto sprofonda.Bisogna partire da quest’analisi, in tutta tranquillità, se si vuole evitare che alla lunga si instauri una specie di teatro con due foyer dove su un palcoscenico illuminato una troupe di brillanti professionisti del dialogo per il dialogo (alter ego diplomatico dell’arte per l’arte) venga a recitare discorsi edificanti – in queste stazioni spaziali terrene che sono i nostri grand hotel, dove non si può vivere insieme permanentemente – mentre su un palcoscenico buio ma infinitamente più affollato, quelli che sono chiamati a vivere fianco a fianco senza dialogare continuerebbero a spararsi addosso. Gli spiriti bellicosi aggiungerebbero che questo doppio palcoscenico materializza un doppio gioco a prova di bomba. Non vediamo dunque la politica di “due pesi e due misure” che l’Occidente conduce? Capace di ben distinguere fra le risoluzioni obbligatorie delle Nazioni Unite, quelle da applicare e quelle da ignorare, accompagnando il tutto con i soliti sermoni sull’universalità dei diritti dell’uomo? Perché mai il quotidiano annientamento delle culture cosiddette marginali o minoritarie dalle industrie culturali del Centro non potrebbe essere accompagnato da generose proclamazioni di riconoscimento «della pari dignità e del rispetto di tutte le culture, comprese quelle dei popoli autoctoni»? Quando manca il contenuto, bisogna riempire il vuoto con le parole. Dopo la defunta “religione oppio del popolo”, dovremo considerare domani la "teologia civile del dialogo" come l’oppio delle élites.[…]Di cosa parliamo ora quando diciamo dialogo? Bisogna che le cose siano chiare. Le relazioni internazionali attraversano in questo momento un periodo singolare. Come osservava recentemente Hubert Védrine, gli Stati dominanti, in testa gli Usa, pensando di aver vinto la battaglia della Storia, considerano superflua la politica estera, un esercizio che consiste nel trattare con persone che non condividono le nostre stesse idee e i nostri stessi valori. Con questi ultimi si pensa che non ci sia proprio di che discutere. Sono canaglie, e quindi li condanniamo, «e quando esagerano, li bombardiamo». Probabilmente è un’eredità surrettizia del povero Impero bizantino, in cui l’amministrazione responsabile delle relazioni internazionali veniva definita l’Ufficio dei Barbari, denominazione che potrebbe essere ripresa dalle nostre capitali (dimenticando che il barbaro, secondo una celebre formula, è colui per il quale esistono popoli barbari per natura e predestinazione). Se il dialogo delle culture consiste nel fornire un supplemento d’anima alla stupidità imperiale, nel fare da contrappunto alla «guerra contro il terrorismo», espressione assurda, nell’esportare il nostro credo ai confini, allora non varrà un tubo. Andremo presto ad Alessandria, tanto meglio, è la strada giusta. Ma non ci dimentichiamo che bisognerà andare oltre, e incontrarci un giorno, se è permesso sognare, a Gaza, a Teheran, a Beirut, a Damasco, senza dimenticare Kabul e Baghdad.Chi crede che l’altro sia per definizione nel torto non ha chiaramente alcun interesse ad ascoltare un punto di vista opposto al proprio. Un dialogo non è il faccia a faccia di un gruppo contro l’altro, in cui ognuno crede di dover dire noi e non io, e di avere la missione di difendere una volontà di potenza contro un’altra. Un dialogo diventa serio quando il rispetto reciproco va al di là della semplice civiltà, e quando, come diceva Paul Tillich, «il dialogo con l’altro è anche un dialogo con se stessi». Quando si è tanto generosi o lucidi da capire che gli elementi che sono nell’altro sono, potrebbero o avrebbero potuto essere anche in noi stessi. Siamo lontani dal political training, per cui agli indigeni del Sud e dell’Est hanno insegnato a pensare e parlare bene come nella metropoli. Niente a che vedere nemmeno con le intimazioni imprecatorie e rancorose per le quali solo il Nord è colpevole, e di tutto. Qui siamo solidali e corresponsabili, per fare in modo di rendere questo mondo comune, nonostante e con tutte le nostre differenze, un po’ meno omicida di quanto non lo sia già.