Teatro. De Fusco rilegge Macbeth alla Boneffoy
Il "Macbeth" di Shakespeare con la regia di De Fusco (Fabio Donato)
Macbeth, una delle più cupe tragedie di Shakespeare e di sempre. Macbeth, certo, malvagio non è del tutto: Shakespeare mostra sin dalle prime battute, scrive Yves Bonnefoy, il grande poeta francese e traduttore shakespeariano, che Macbeth è «vittima di un’aggressione tanto difficile da combattere quanto gravida di conseguenze». Forza, lealtà, coraggio, «ma ecco che le forze del male decidono, lì davanti a noi, nella stessa scena, di realizzare un piano che supera tutte quelle virtù». Condivido. Franco Branciaroli più volte suo interprete, pure: «incontra tre streghe, e inoltre gli spetta la successione. Efferato, ma comprensibile ». Di parere diverso altro grande attore, Glauco Mauri: «Io in una messa in scena ideale, metterei in ogni strega qualcosa del volto di Macbeth. Sono parti di lui». Dopo aver visto il suo spettacolo, penso che il napoletano Luca De Fusco, regista di un eccellente Macbeth, fino a domenica scorsa in scena a Genova e ora in altre città italiane, la pensi come Bonnefoy, e come me: le streghe non sono quelle interiori di Mauri, sono streghe. Vere, scenicamente efficaci nel loro seducente falso eros serpentese. Qui la cifra di De Fusco sulla lettura di Macbeth: non totalmente efferato, non certo innocente, ma un grumo di disperazione fato e sangue: un incubo tragico. Solo Polansky ha privilegiato simile e maggiore intensità questa natura incubosa di Macbeth quanto De Fusco, che ne crea un personaggio della stessa sostanza del sogno, consustanziale, in questo caso e nella realtà, del suo avversario, l’incubo. Come l’angelo e il diavolo. Il teatro si mescola con le installazioni video instaurando un stretto rapporto tra teatro, musica e danza. «La logica visuale- scrive il regista- asseconda la natura fantastica del testo che vede i suoi momenti fondamentali tutti fortemente contrassegnati dal tema del sogno, del delirio, insomma dell’irreale. L’ambientazione non colloca l’allestimento in una precisa epoca ma in una dimensione atemporale». Cita anche le interpretazioni di Bloom e Freud, ma per fortuna (e per bravura) nella realizzazione non ne tiene con- to. De Fusco non crea nulla di artificiosamente “sperimen-tale”, ma semplicemente innerva di contemporaneità a livello percettivo, la tragedia di Shakespeare. Tutto è pieno, denso, vivo senza sbavature. Nonostante la traduzione, faticata, concettuale, priva di forza poetica: il monologo finale sul nulla della vita non finisce con il famoso «nothing» di Shakespeare, ma con una sorta di parafrasi, manca la forza di quel «niente». Così come suona psicanalitico esortare Macduff a “non rimuovere” l’appena appresa morte efferata di moglie e figli. Ma lo spettacolo tiene alla grande. Straordinario Luca Lazzareschi, che sceglie di essere solo il Macbeth tormentato, crudele e disperato, mettendo in sordina l’iniziale spavalderia del grande guerriero vittorioso. Una scelta, ben bilanciata da una lodevole Lady Macbeth- Gaia Aprea, al contrario quasi inconsapevolmente dannata: mentre il marito da subito sprofonda nel baratro della follia, lei che pure ancor più lucidamente ha stilato il patto con le streghe, a prezzo del suo sangue, pare mogliettonesca, domesticamente attenta a coprire i deliri del marito. La coppia quindi crea un equilibrio originale e perfetto, psicologicamente e drammaticamente, a cui risponde l’azione degli altri attori, scatenati, impeccabili, fasciati nella guaina onirico barocca di luce di Manolenta Saccomandi-Eric Clapton.