Vite diverse che si incrociarono e scontrarono più volte quelle di Armando Saitta e Renzo De Felice, prima di ricomporsi in una coabitazione pacifica e rispettosa presso la Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma. Vite inizialmente segnate da drammi familiari che spinsero i due ragazzi a crescere presto. Saitta, nato nel 1919 in un angolo montano della provincia di Messina, per ovviare alle difficoltà economiche seguite alla prematura morte del padre, concorse e vinse il posto di convittore alla Normale di Pisa: conobbe Gentile, Cantimori, Calogero; fu allievo di Morandi. Azionista, poi marxista, ma non iscritto al Pci, venne considerato nell’immediato dopoguerra uno dei giovani storici di maggior rilievo: studioso di quel giacobinismo italiano che, se non tenuto a freno dal rigore scientifico, trapassava nella propaganda comunista. Errore imputato al più giovane De Felice, nato nel 1929 a Rieti, studente sempre in affanno nei licei romani, a causa della traumatica morte della madre e del difficile rapporto col padre. Laureatosi tardi col grande storico liberale Federico Chabod, crebbe culturalmente all’ombra di Cantimori. Iscritto al Pci, la militanza partitica ne coartava le interpretazioni del giacobinismo. Uscito dal partito nel ’56, lavorò nelle redazioni di periodici di terza forza e della sinistra democristiana,
Tempi moderni e
Il Nuovo Osservatore. Ma quelle pregresse esuberanze giovanili, quel passare ingenuamente dalla ricerca storica alla propaganda politica, gli intralciarono la carriera accademica. Giunse alla cattedra universitaria solo nel ’68, a Salerno, mentre quell’anno Saitta, ordinario a Pisa dal ’54, giungeva all’Università di Roma, prima alla Facoltà di Magistero, poi dal ’71 di Scienze Politiche. Anni duri per docenti che non si piegavano alle violenze ideologiche e fisiche di pericolosi movimenti extraparlamentari, da Lotta Continua a Potere Operaio fino ai confini tragici della lotta armata. Figurarsi per De Felice che, da studioso del giacobinismo italiano era diventato dagli anni ’60 il grande studioso del fascismo; lo studioso che, separandone il giudizio politico dalla ricerca scientifica, aveva aperto prospettive 'pericolose'. Minacciato, spesso fisicamente impedito a far lezione, non fu tra quei tanti colleghi che per 'giovanilismo', opportunismo, convenienza politica, trovarono comodo o necessario accettare violenze e sopraffazioni. Con lui e prima di lui, Saitta, opponendosi coraggiosamente a quell’ubriacatura ideologica, aveva tentato di difendere dalla violenta destrutturazione il sistema dell’istruzione. Le censure editoriali che subirono furono un altro punto di congiunzione delle loro esperienze intellettuali. A De Felice nel ’64 venne chiesta la voce
Fascismo da un’importante Enciclopedia tedesca,
Sovjetsystem und demokratische Gesellschaft. La voce venne accolta con plauso nel ’66, ma quando due anni dopo gli giunsero le bozze, risultarono tagliate 14 delle 37 pagine originali; De Felice rifiutò quindi di firmare quella voce che solo nel ’97, un anno dopo la sua morte, venne edita su una rivista scientifica, e poi ancora nel 2011. Ma nessuna di queste due edizioni procedette al confronto tra il testo originale e quello censurato. L’originale conteneva la critica dell’interpretazione ideologica banale, risalente a Dimitrov, secondo di Stalin nel Comintern, del fascismo come regime imperialista, borghese, socialdemocratico e trotzkista. Al contrario, anche Gramsci aveva riconosciuto che non era una reazione capitalistica e agraria; e non esisteva un unico fascismo europeo (comprendente sotto un unico comun denominatore, Salazar e Franco, Maurras e Kemal Ataturk); per giunta, sostanziali e non poche erano le differenze tra fascismo e nazionalsocialismo. Si poteva dire tutto ciò nel ’68? Anno delle libertà per tutti, tranne per chi la pensava diversamente. Fu poi la volta di Saitta a vedersi stravolto dalla
Nuova Italia, casa editrice di tradizione culturale azionista e socialista, il famoso manuale di storia per i licei,
Il cammino umano, in particolare nelle pagine della cronaca politica più recente e scottante: gli anni ’70. Una sentenza del Tribunale di Firenze del 21 ottobre ’76 riconobbe gli interventi illeciti a danno della libera espressione dell’autore in 11 punti del testo: erano state ridotte le dirette responsabilità terroristiche dell’extraparlamentarismo di sinistra, le osservazioni critiche sulle trasformazioni delle regioni «in semplici riserve di caccia per il clientelismo dei partiti », le riserve sui privilegi sindacali ecc. La nuova inquisizione laica era intervenuta efficacemente. Decenni dopo (decenni in cui interventi censori erano continuati indisturbati a danno d’altri autori) toccava di nuovo a De Felice subire una sofisticata forma di censura. Curò nel ’93 l’edizione di un libro postumo,
Alla guida del Clnai di un autore pressoché ignoto: Alfredo Pizzoni. Questi era stato a capo del Clnai dal settembre ’43 al 27 aprile ’45, allorché, essendo di tradizione liberale ma indipendente dai partiti politici, venne destituito per far posto a un esponente di partito (il socialista Rodolfo Mondolfo). Giudizi durissimi emergevano dalle pagine del capo del Cln sulla moralità della Resistenza, su Merzagora, peggio su Pertini. Il volume, finanziato dal Credito Italiano di cui Pizzoni era stato dirigente, venne stampato dall’Einaudi fuori collana e non distribuito. Nelle librerie, semplicemente non c’era. Francesco De Gregori nel suo recentissimo
A passo d’uomo, lo ha ricordato con stupore. Ma fu proprio
Avvenire il 2 febbraio ’94 a denunciare il caso. Allora l’Einaudi, contro ogni consuetudine e soprattutto contro ogni logica commerciale, piuttosto che dar circolazione al volume lo cedette al Mulino che lo pubblicò subito, ricordando nelle bandelle di presentazione del volume, il «ruolo insostituibile» avuto da Pizzoni nell’organizzazione della Resistenza, e l’esser stato «messo da parte all’indomani della liberazione »; l’Einaudi non l’aveva fatto (istruttivo di per sé il semplice confronto tra le due diverse bandelle di presentazione). Saitta e De Felice hanno insegnato che la libertà coraggiosa della ricerca non solo scardina il monopolio ideologico, ma lo obbliga a mostrare la sua vera faccia: violenta.