Fotografia. Mario De Biasi, il sole di un'Epoca
Gli italiani si voltano, Milano, 1954
Helios. Il sole. È quello che ha cercato insistentemente, in ogni scatto, in ogni momento della sua vita, Mario De Biasi. Come un’ossessione di positività, di umanità, di speranza anche nelle più tormentate e drammatiche visioni di guerra e di tumulti, come nel 1956 quando, inviato a Budapest, documentò la rivolta antisovietica dell’Ungheria, rimanendo ferito a una spalla dalla scheggia di una granata, guadagnandosi l’appellativo di «Italiano pazzo». Il sole, che albeggiava anche nella glaciale Siberia, nel 1964, quando per fotografare un cavallo coperto di brina a 50 gradi sotto zero, rischiò il congelamento: «Mi avrebbero amputato le orecchie se non ci fosse stato Walter Bonatti a salvarmele con un energico massaggio». Il sole, nell’inferno dell’Etna, quando, sempre nel 1964 rischiò la vita per catturare la spettacolare eruzione del vulcano, con piogge di cenere e lapilli che arrivavano fino al mare. Il sole, di una splendida Moira Orfei vestita di bianco che passeggia per il centro di Milano, attirando lo sguardo di un gruppo di uomini, la foto forse più celebrata “Gli Italiani si voltano”, realizzata nel 1954 per il settimanale di fotoromanzi Bolero. Il sole di un’epoca che Mario De Biasi ci ha lasciato, come un patrimonio prezioso per leggere la storia e costruire il futuro.
“Helios”, così si firmava nei primi lavori e concorsi quando esplorava le opportunità della sua prima fotocamera, una Welta 6x6 regalatagli da una famiglia tedesca che lo ospitava dopo l’esperienza a Norimberga, nel 1944 e 1945, dove fu mandato al lavoro coatto come radiotecnico alla Siemens, lui in forze alla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni. L’interesse per la camera oscura nacque con il ritrovamento di un libro di tecnica fotografica, proprio lì, fra le macerie. Il fotografo di Sois (Belluno) nato da una famiglia povera, ultimo di cinque figli e rimasto orfano a 10 anni, aveva trovato il sole. «Mio padre era un grande ottimista – ricorda la figlia Silvia –: mi diceva di pensare che al di là delle nuvole, c’è sempre il sole».
Il sole dell’Italiano pazzo – scomparso nel 2013, a quasi 90 anni – si può cercare e trovare nella meravigliosa retrospettiva che la Casa dei Tre Oci di Venezia presenta fino al prossimo 9 gennaio, “Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003”: 256 immagini, metà delle quali inedite e vintage ripercorrono l’intera produzione del fotoreporter, dagli esordi della sua collaborazione con la rivista Epoca fino agli ultimi lavori. L’esposizione - curata da Enrica Viganò, organizzata da Civita Tre Venezie con Admira e promossa dalla Fondazione di Venezia (il catalogo è edito da Marsilio) – è un tuffo nell’Archivio Mario De Biasi, custodito con cura e amore dalla figlia Silvia nella sua casa-studio milanese. «Era il momento – osserva Viganò –. Si sentiva la necessità di una mostra antologica che celebrasse il talento di Mario De Biasi in tutte le sue sfaccettature. Il fotoamatore neorealista, il fotoreporter di Epoca, il testimone della storia, il ritrattista di celebrità, l’esploratore di mondi vicini e lontani, l’artista visuale, l’interprete di madre natura, il disegnatore compulsivo e creativo. Tutto il suo lavoro è un inno alla vita». E al sole. Che attraversa e illumina come un faro il suo andare nella storia per storie, per temi, nel bianco e nero e nei colori. Quelli che campeggiano sulle pareti dello storico edificio dell’isola della Giudecca, la casa veneziana della fotografia che nel 2023 chiuderà gli occhi per riaprirli altrove, in un altro luogo della Laguna continuando a illuminare gli appassionati con immagini straordinarie, come quelle di De Biasi, ha garantito la presidente di Civita Tre Venezie, Emanuela Bassetti.
Al confine tra Austria e Ungheria, 1954 - © Archivio Mario De Biasi - courtesy Admira, Milano
Ai Tre Oci c’è il giallo del sole. E il rosso della passione di De Biasi, con tutte le sue copertine di Epoca, il magazine che ha fatto davvero epoca, dove i fotografi venivano assunti, come i giornalisti. Una squadra magica di cui facevano parte, fra gli altri, anche Sergio Del Grande e Giorgio Lotti. Mario De Biasi è stato il primo, indimenticabile, narratore per immagini. Lungo una parete scorre il servizio dall’«agonia di Budapest», uno storytelling ante litteram, dove la rivolta, il dramma e le violenze si fondono alle vicende umane: passando dai carri armati della città alle speranze lungo il confine, dove De Biasi fissa il sorriso di una coppia con un bimbo nella culla e un bacio. Gli anni ’50 costituiscono uno dei fulcri del percorso espositivo con le immagini di un’Italia devastata dalla guerra, dove si coglie però la voglia di rinascita e di ricostruzione. Lo si percepisce nelle foto raccolte un po’ in tutto il Paese, con gli stessi sentimenti che forse viviamo adesso, dopo questo anno e mezzo di pandemia in un altro mondo, apparentemente inarrestabile. Un’attenzione per la realtà che si coglie negli scorci memorabili di New York, dove De Biasi approdò per la prima volta a bordo del transatlantico Cristoforo Colombo, con una crociera organizzata per presentare la moda italiana in America: De Biasi non volle rifare il lungo viaggio di ritorno in nave fra le nobildonne e il codazzo di quella traversata. Preferì restare sette giorni nella Grande Mela e rientrare in aereo, a sue spese, mangiando pane e bevendo Coca-Cola, per documentare i contrastanti aspetti della città, dalle eleganti strade del centro allo squallore dei quartieri poveri, riuscendo a fotografare persino personaggi famosi come Onassis o l’attore David Niven.
Mario De Biasi alla sua scrivania nella redazione di "Epoca". In primo piano l'attrezzatura fotografica, alle spalle ritratti femminili raccolti nei cinque continenti, Milano, anni ’ 60 - © Archivio Mario De Biasi - courtesy Admira, Milano
Basta girare lo sguardo e introdursi in un’altra stanza per scoprire altri colori e “mondi”. Perché De Biasi mentre seguiva “la Storia”, non dimenticava di osservare i piccoli “gesti universali” della vita di tutti i giorni. «La gente si meraviglia perché faccio tanti temi - diceva -. È che io ho tanti temi in testa. Trovo interessante con il tempo mettere insieme delle cose, associare dei temi che scopro in tutti i continenti». Così nascono le serie di un “mondo di baci”, dei “barbieri di strada“, della “pausa pranzo”: a quest’ultima è dedicata una grande installazione, un planisfero sul quale sono esposte 40 fotografie vintage, di piccolo formato, ciascuna connessa al luogo in cui è stata scattata, da Londra a Parigi, da Roma a Vienna, dal Cairo a Teheran, dalla Thailandia al Brasile, da Israele al Nepal. «L’intento - spiega Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci - è di restituire il senso di universalità e il taglio antropologico della ricerca di Mario De Biasi, che ritrova in un semplice gesto quotidiano un forte senso di comunanza tra culture lontane e diverse». Il mondo a colori di De Biasi, che non riusciva mai a stare fermo e «inoperoso», sempre con macchina fotografiche al collo, e in tasca un taccuino e dei pastelli, matite e pellarelli con cui disegnava nelle pause di viaggio, nelle attese, sui fogli degli alberghi, sui tovaglioli, sulle ricevute, praticamente ovunque. Così, per la prima volta, in questa mostra, le fotografie di De Biasi vengono accostate alle sue creazioni, anche queste a tema: ed ecco il sole, anzi, i soli. Ne sono stati trovati e contati oltre quattromila. Soli, e poi farfalle, alberi, facce, cuori. E occhi, certo. Per vedere lontano. Gli occhi, che campeggiano ai Tre Oci. Come un omaggio a questo luogo magico dove si magnifica la fotografia. I due occhi e la macchina fotografica. A cui De Biasi aggiungeva senz’altro un quarto occhio, il cuore. Quello che gli faceva vedere il sole, oltre le nuvole. Parola di Silvia, che viaggiando per il mondo di papà in mostra, si commuove: «Non lo vedevo mai. Ma mi ha lasciato tutto ciò che ha visto». Quando Italo Zannier lo invitava a occuparsi dell’archivio, De Biasi rispondeva: «La parola 'archivio' mi fa soffrire. Piuttosto che chiudermi in una stanza a guardare il passato, preferisco uscire di casa e fare cose nuove». Cercare il sole. Ma il suo archivio, oggi, ci restituisce tutta la sua luce. Quella di Helios.