Basket. Datome: «Con un canestro rendo felici i più piccoli»
Gigi Datome, 31 anni, capitano della Nazionale italiana di pallacanestro e giocatore del Fenerbahçe / Foto Fip
Potrebbe essere senz’altro il titolo di una fiaba d’autore: “il gigante felice”. E invece è la storia di un protagonista in carne e ossa del nostro basket: Gigi Datome è oggi uno dei volti più amati e conosciuti sotto canestro e non solo. Con quella barba da “santone” che tradisce un animo curioso e pensante. Un giocatore atipico in campo e fuori, un filosofo del parquet di 203 centimetri, la cui favola è cominciata molto presto nella Santa Croce d’Olbia, società fondata dal suo papà. Nato a Montebelluna ma cresciuto in Sardegna, dall’isola ha spiccato il volo, giocando anche in Nba, il campionato dei sogni americano. Dal 2015 veste invece la canotta dei turchi del Fenerbahçe con cui da anni è ai vertici dell’Eurolega. Ora la nuova Milano di coach Messina vorrebbe riportarlo in Italia: «A Istanbul sto bene e la mia intenzione è restare, però non so che cosa accadrà nel futuro». Di sicuro lo vedremo presto di nuovo leader in azzurro visto che incombono i Mondiali in Cina (dal 31 agosto al 15 settembre). A 31 anni Datome è il capitano di una Nazionale che ha voglia di voltare pagina dopo tante delusioni: «Una medaglia con l’Italia è il mio grande sogno, ma anche in caso di vittoria la barba non si tocca, ormai non mi ci vedo più senza». Chitarrista (« Blackbird dei Beatles è il pezzo che mi piace suonare di più»), divoratore seriale di libri ma adesso anche autore (il 2 luglio esce il suo libro, Gioco come sono insieme con Francesco Carotti edito da Rizzoli), è pronto per scrivere anche nuovi capitoli legati al suo impegno sociale, come il “Gigione Day”, la manifestazione di beneficenza diventata ormai un appuntamento annuale.
Il finale di stagione col Fenerbahçe non è stato fortunato, prima di andare in Nazionale dovrà sottoporsi anche a un piccolo intervento di pulizia al ginocchio.
Sì purtroppo non ho potuto aiutare i miei compagni come avrei voluto. I tanti infortuni anche dei miei compagni e il non essere arrivati al top della forma nelle finali disputate sia in Eurolega che in campionato lasciano un po’ di amaro. Ma non cerchiamo scuse, sono cose che fanno parte della vita e dello sport. Sono orgoglioso perché ci siamo battuti fino alla fine.
Da quattro anni gioca a Istanbul non le manca l’Italia?
Gli affetti e gli amici sicuramente. Però ormai sono abituato a vivere lontano da casa. E poi mi trovo molto bene a Istanbul ho avuto modo di conoscere a fondo la città e la cultura turca. E sebbene il primo anno ci sono stati diversi attentati non ho mai avuto paura. In fondo è l’obiettivo del terrorismo, ma io mi sono sempre sentito sicuro.
Nel nostro campionato sono pochi i giocatori italiani che fanno la differenza. Andare all’estero sembra quasi una necessità.
Se si ha la possibilità un’esperienza fuori è stimolante e utile anche dal punto di vista umano. Anche perché la nostra Serie A non è più quella degli inizi anni Duemila quando il nostro campionato era forse il migliore d’Europa. Siamo di sicuro indietro sugli impianti. Poi che ci siano tanti stranieri è frutto del nuovo scenario globale. A me non piace però che tanti vengono in Italia solo per “usarci”: mettersi in mostra e andare via subito senza dare ai club il tempo per programmare.
Lei ha cominciato molto presto a palleggiare…
Mio padre giocava e nel 1970 fondò con alcuni suoi amici la Santa Croce Olbia tuttora seguita da mio zio e mio cugino. Ecco perché il 70 è il mio numero di maglia anche in Nazionale. Influenzato da mio padre e da mio fratello più grande, mi sono trovato da subito col pallone in mano. Non ricordo il mio primo giorno di pallacanestro, è stato tutto naturale, a 4-5 anni ero sempre o a casa o al palazzetto.
Come scatta la passione per il basket?
Innanzitutto è uno sport di squadra. Per cui come direbbe Pozzecco: “A fine partita non abbracci la racchetta” con il massimo rispetto per le discipline individuali. Ma poi la pallacanestro è oggettivamente spettacolare. È l’unico sport che tende al cielo diceva Bill Russell. C’è qualcosa di artistico nei movimenti, nel tiro…
Chi sono stati i suoi modelli?
Allen Iverson da ragazzino. Poi Bodiroga e Tony Parker. Ma oltre ai mostri sacri Jordan e Lebron James, Ginobili è quello che mi ha trasmesso più emozioni. Sono però stati tutti solo modelli sportivi. Per il resto mi piace discutere e ascoltare persone migliori di me, più intelligenti e con più cultura.
Ha giocato in Usa con i Detroit Pistons e i Boston Celtics. Ha qualche rimpianto nell’aver lasciato l’Nba dopo due anni?
No, è stata un’esperienza molto formativa ma altalenante. Grande entusiasmo per un mondo meraviglioso ma spesso anche frustrazione: come ogni giocatore io voglio giocare. Negli anni scorsi ho avuto la possibilità di tornare ma sapevo che sarei stato più felice in Europa e sono contento di non esserci andato.
Qual è stato il momento più felice della sua carriera?
Sicuramente il trionfo in Eurolega col Fenerbahçe due anni fa è stato il massimo. Ma io non dimentico nulla del mio percorso. Ho faticato tanto per ritagliarmi il mio ruolo a Siena, Roma e all’inizio anche in Nazionale. Ero convinto di poter far ricredere tanti e sono contento di esserci riuscito. La felicità pura però è legata allo “scudettino” allievi vinto con Olbia in cui ho pianto per la prima volta di gioia e ho ancora i brividi.
Dal 2013 è il capitano della Nazionale che torna ai Mondiali dopo tredici anni.
Sono orgoglioso e fiero di essere capitano ormai da così tanti anni. La qualificazione mondiale è un bel risultato ma per fare la storia ci vuole una medaglia, il mio grande cruccio in azzurro. Però obiettivamente pensiamo innanzitutto a passare il primo turno poi sarà molto dura. Abbiamo un bel gruppo, il ct Sacchetti è bravo perché è uno che dà grande fiducia ai giocatori e ti spinge a lottare su ogni pallone. Poi sicuramente Gallinari e Belinelli saranno i nostri punti di riferimento.
Ci sono state polemiche in merito alle loro assenze.
Bisogna chiedere a loro. Ognuno fa le sue scelte, importante è essere chiari. Mi è dispiaciuto solo che se n’è parlato troppo, più di quello che succedeva in campo. Vestire la maglia azzurra è un onore e farò di tutto per vincere una medaglia con la Nazionale anche se serve davvero un’impresa.
Quando non punta il canestro, si lancia sui libri...
Sì, ne leggo tre-quattro al mese. Ora sto leggendo Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. È un modo per stare anche con me stesso. Poi certo sono attivo sui social, ma certo bisogna essere consapevoli degli aspetti negativi: oggi spesso nel mondo conta più l’apparenza che la sostanza. Nel tempo libero seguo anche i talk-show di politica, ma nel mio futuro non mi vedo in Parlamento: mi basta già essere presidente dell’Associazione giocatori di Eurolega.
Lei si definisce innamorato della vita.
Sono una persona felice, ho realizzato un mio equilibrio interiore. Sento di avere fede, anche la preghiera per me è una dimensione intima molto importante. Ho grande rispetto per la cultura cattolica perché è la nostra, quella in cui sono cresciuto.
«La felicità è autentica solo se condivisa» dice uno dei suoi film preferiti.
Into the wild è un film stupendo e quella frase la sento mia perchè molto vicina al mio modo di pensare. Ritengo infatti che la felicità difficilmente possa essere goduta appieno senza condividerla con la gente che si ama.
La descrivono come un personaggio molto amato dai bimbi.
Forse li incuriosisce il mio barbone. A me intriga tanto interagire con loro perché mi piace ricordarmi com’ero. Tra i miei progetti un giorno c’è anche il matrimonio e i figli a cui vorrei trasmettere l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori, soprattutto il desiderio di dare sempre il meglio di sé.
Ai più piccoli è legato anche il “Gigione Day”…
Quest’anno si chiamerà “GGG” perché coinvolgerà anche Greg (Gregorio Paltrinieri) e Gimbo (Gianmarco Tamberi). Lo faremo il 2 agosto a Cervia (Ravenna). Dopo i bambini autistici e quelli down questa volta vogliamo aiutare l’Ospedale Bambino Gesù. È un evento meraviglioso che mi permette attraverso il basket di far qualcosa per realtà spesso emarginate. Quando ti capita di far salire sulle spalle una bambina down e farla schiacciare tra l’entusiasmo del pubblico? Un’emozione pazzesca».