Musica. Con Franco D'Andrea il jazz si fa etico
Avrebbe potuto autocelebrarsi, il pianista Franco D’Andrea, padre nobile del jazz, classe ’41, attivo da decenni su più fronti e in collaborazioni d’ogni sorta: da Gato Barbieri a Max Roach passando per il gruppo jazz-rock del Perigeo e arrivando alla scelta di alternarsi fra quartetti, trii e organici numericamente ancora diversi. Avrebbe potuto autocelebrarsi nel momento stesso in cui ha concepito l’idea del suo nuovo cd (in ottetto) Intervals I: ovvero riunire in un unico contesto vari universi esplorati nel tempo, sperimentando suoni, ritmi e timbri mettendo assieme in modo personale quanto via via appreso fra avanguardie americane, echi africani, musica elettronica, jazz classico e non. Invece, ancora una volta fedele a un’etica prima che a un’estetica del jazz, e sempre sottolineando concetti quali condivisione, gratitudine e affiatamento umano, D’Andrea ha voluto che Intervals I fosse l’ennesima sfida. La sfida di misurare sul campo un’ipotesi per il futuro del jazz basando scrittura e improvvisazione collettiva sul solo nucleo degli intervalli, le distanze possibili fra le note: per puntare di lì a sonorità inedite sviluppando come mai prima i timbri degli strumenti e in modo nuovo la musica.
Dentro un lavoro di gruppo meditato, mai pleonastico, in cui ogni virtuoso (compreso un Dj) dà il proprio meglio alternandosi fra supporto agli altri, incisività della propria ricerca sullo strumento, esplorazione di nuove frontiere comuni. E il risultato, va detto, è notevole. Perché l’ottetto di D’Andrea, live nel cd, ne esce come un gran gruppo capace di respirare all’unisono pur nelle differenze, mediate e valorizzate in un continuo dialogo: che in Afro abstraction costruisce per accumulo da ottoni ancestrali e battiti frastagliati, in A4+m2 si ciba di contrasti di profondità tra ieri e domani, per Intervals 2/m2+M3 crea un ombroso reticolo sonoro e per Air waves parte da un interplay fra acustico e sintetico per giungere a un accostamento estremo fra solidità ritmiche e spazialità elettriche. D’Andrea e il suo ottetto (piano, sax, clarinetto, trombone, chitarra, contrabbasso, batteria ed elettronica) presenteranno il progetto in tour a Torino il 28 aprile: ma per D’Andrea la ricerca continuerà ancora.
Che cosa sta cercando oggi dal jazz?
«Nel mio piccolo ho avvertito la necessità di mettere me e i musicisti allo scoperto, lavorando profondamente sul senso del far musica. Così ho compattato in un unico organico musicisti che mi seguono da tempo, per immaginare insieme qualcosa di nuovo partendo da una confidenza di base».
Ma partire da intervalli predefiniti, dà libertà?
«Intanto le distanze fra le note si possono combinare sia in verticale che in orizzontale, con gli accordi, in più modi. Poi, se anche noi rimaniamo noi stessi in ogni situazione perché la struttura è minima ma solida, il fatto che sia minima porta a vera improvvisazione collettiva, che peraltro non significa senza parametri. È fatta di dialogo e attenzione, agli altri e alla struttura di base; lo scopo non è un insieme di assoli incoerenti bensì la libertà dentro un’organicità compatta di suono».
La ricerca proseguirà in autunno con Intervals II…
«Sì, un cd che proporrà le prove del concerto edito ora nel volume uno: ho fatto questa scelta pensando al Miles Davis che registrava tutto e che arrivò a pubblicare il brano Nefertiti da una prova capace di magia sconosciuta alle sessioni ufficiali. Nel secondo cd, tramite temi che nel primo non ci sono e altri sviluppati in modo diverso, si capiranno ancora meglio rigore e libertà di questa nuova prospettiva».
Cosa cercava oggi nell’elettronica?
«L’aggiunta del set del Dj Luca Roccatagliati, ma anche quella della chitarra di Enrico Terragnoli, permettono di affiancare all’acustico manipolazioni elettrica ed elettronica: per creare, mentre suoniamo, sempre qualcosa di più».
E il suo piano in che modo scopre nuovi colori?
«L’ho voluto solo acustico qui: trovavo eccessivo aggiungere altra elettronica. L’obiettivo è anche il bilanciamento fra i mondi, una loro conoscenza reciproca che cresca e possa diventare musica vera».
Ma come sceglie i musicisti per i suoi progetti?
«Li scelgo sul piano umano: è impossibile suonare insieme senza un affiatamento che vada oltre quello tecnico. Roccatagliati mi piaceva ma ho capito che potevamo suonare insieme parlando di Miles, il chitarrista mi conquistò suonando una nota di banjo che indicava spregiudicatezza di osare il nuovo».
C’è dunque un’etica, alla base del suo jazz?
«Senz’altro. L’etica della gratitudine, soprattutto: per tutti coloro che nella storia, anche se magari ignoti, hanno portato avanti questo linguaggio. A volte il pubblico manca, a volte i musicisti puntano ai soldi, però il jazz sopravvive, e tanti giovani lo suonano bene: quindi non possiamo farne prescindendo da chi l’ha creato, salvato, sviluppato nel tempo».
Ma il jazz passa messaggi? Non le mancano le parole?
«Guardi, io ho conosciuto bene Lucio Dalla, suonavamo a Bologna, era un talento e ascoltava tante cose: per lui la parola era importante, anche sul piano sonoro. Ma io proprio non sono incline, alla musica vocale. Anche davanti ai nonni che volevano avvicinarmi alla lirica alla fine amavo le ouverture, non le opere. Però la musica vera testimonia sempre qualcosa anche senza parole, la storia lo dimostra».
Dopo questo ottetto ha già altri progetti?
«Può scaturire tanto andando avanti su questa strada. Ma in me c’è la voglia di tornare al piano solo per contrasto: a sgombrare il campo, vedendo se posso crescere ancora pure nella situazione più piccola possibile. Poi ho anche altro in mente, e vorrei coinvolgere una tromba: ho individuato un paio di giovani che ovviamente devo conoscere come persone. Però continuerò a far musica da condividere: se non condividi le tue idee con qualcuno, non produci niente. Se poi sarà con tanti, beh, meglio ancora».