Il Premio Nobel. Dalle celle degli ayatollah le voci di Narges e le altre
La consegna del Nobel per la pace 2023 alla famiglia dell'iraniana Narges Mohammadi
Quando riesce a far filtrare una lettera dal carcere di Evin, dove è rinchiusa dal 2021, i suoi aguzzini la richiamano davanti a un giudice che le infligge altri mesi di carcere, in aggiunta alle cinque condanne già totalizzate, tre delle quali durante la detenzione. Ma Narges Mohammadi, 52 anni, premio Nobel per la pace nel 2023, non si fa piegare. Con una resistenza eroica, dalla cella continua a essere esempio di coraggio per chi, dentro e fuori i confini, continua a sperare che le cose nella Repubblica islamica dell’Iran potranno un giorno cambiare. Per quanti anni gli ayatollah e i loro rappresentanti potranno torturare gli attivisti per i diritti umani? Per quanto il mondo potrà tollerare simili crimini, commessi con metodica e scientifica crudeltà per piegare corpi e volontà?
Sono le domande che si pone il lettore di Più ci rinchiudono, più diventiamo forti, scritto da Narges Mohammadi (Mondadori, pagine 208, euro 19,00). È una raccolta di interviste condotte dall’attivista tra le sue compagne di cella, prigioniere di coscienza nel reparto femminile di Evin, il famigerato carcere politico di Teheran dove Narges si trova dal 2021, o in quello di Zanjan, da dove è stata rilasciata nel 2010 dopo aver scontato cinque anni e mezzo di detenzione. Anche questo libro le è valso un allungamento della pena. Nei lunghi anni in cella (più di dieci, gliene sono stati inflitti oltre 30 più diverse decine di frustate, nonostante le precarie condizioni di salute) con varie accuse, da “propaganda contro il regime” a “sovversione”, la vicepresidente e portavoce del Centro dei difensori dei diritti umani ha potuto raccogliere le voci di tredici sfortunate: la turkmena Nigara Afsharzadeh, l’attivista Atena Daemi, la poetessa Mahvash Shahriari, la convertita cristiana Fatemah Mohammadi... Tutte vanno a fondo dei propri sentimenti e paure, descrivono con intensità la solitudine e la rabbia di essere state private della libertà, chi per aver stampato un volantino, chi per aver partecipato a una manifestazione…
Tutte descrivono una particolare forma di tortura usata contro di loro, la stessa tecnica contro la quale Narges Mohammadi si batte da anni: la deprivazione sensoriale portata agli estremi livelli. Il controllo della luce, che priva il corpo della capacità di distinguere il giorno dalla notte, le minacce rivolte ai figli, il cibo insufficiente e scadente, l’incertezza sul proprio iter giudiziario, le iniezioni somministrate in infermeria senza una spiegazione.
Tutto ciò destabilizza il corpo e la mente e provoca uno stato permanente di ansia. Nazanin Zaghari-Ratciffe, giornalista iraniano-britannica, accusata di spionaggio e attività sovversive, è stata arrestata nel 2016 durante un viaggio nella madrepatria, separata da una figlia che ancora allattava. Nel carcere di Kerman, il primo in cui fu reclusa, la cella era due metri per tre, senza suppellettili e senza finestra, con una potente lampada che non si spegneva mai, il pavimento di pietra. «La prima settimana non ho chiuso occhio. Il cuore mi batteva talmente forte che, non appena appoggiavo la testa sulla coperta, mi sembrava che il cervello fosse sul punto di esplodere.
Nella prima settimana sono stata interrogata tutti i giorni, erano gli unici momenti che uscivo dalla cella », racconta Nazanin alla sua intervistatrice. Quando dopo qualche mese ha rivisto la figlia, era così debole da non stare in piedi, e non ha riconosciuto la piccola. Mahvash Shahriari, appartenente alla comunità bahá’í , condannata a vent’anni di reclusione nel 2008 e rilasciata nel 2017, racconta che «l’isolamento prolungato, insieme agli intensi interrogatori, alla distanza e alla mancanza di notizie da parte della mia famiglia, nonché alle minacce rivolte alla mia comunità e ai miei cari, mi hanno causato tutta una serie di problemi: difficoltà respiratorie, tachicardia, insonnia, irrequietezza».
La parte più difficile per Mahvash sono stati «gli interrogatori condotti in maniera spregiudicata, che non si attenevano ad alcun regolamento o leggi e riguardavano questione personali». Le testimonianze raccolte in questo libro, un autentico viaggio nell’orrore, documentano però che la “tortura bianca”, pur infliggendo ferite profonde, non ottiene i risultati sperati. Il regime islamico, come scrive la storica e sociologa specializzata in diritti umani Shannon Woodcock nell’introduzione, «non può separare una donna dal suo amore per la famiglia, per i suoi concittadini e per il suo Dio».