Fotografia. Dall’Avana a Kabul, l’umanità negli occhi di McCurry
L’Avana, Cuba, 2019
Una donna anziana è sull’uscio di casa, ha i capelli tinti di un viola «alla moda» e mostra «uno spirito indomito ». L’incontro casuale di Steve McCurry, nel 2010, con una signora per le strade dell’Avana si è trasformato in «una lunga conversazione durante la quale lei ha raccontato di aver studiato e lavorato a New York negli anni Cinquanta». Ma poi è tornata. Il richiamo della sua terra, dei suoi colori. «Sgargianti, anche quando sbiadiscono in tonalità più tenui al sole dei Caraibi – annota il grande fotografo americano –, che scaturiscono non solo dalla creatività artistica della popolazione ma anche dalla penuria di materiali. Rosa e azzurro, pesca e verde acido possono derivare da scelte precise, ma altrettanto probabilmente riflettono la disponibilità del momento». I colori di La Habana Veja, l’Avana Vecchia, delle sue strade strette piene di edifici, vicoli bui, persone e automobili dalle tonalità vivaci, come una vecchia Trabant russa. Spaccati di una città, in tempi diversi, che McCurry ha colto e inserito fra i cento scatti inediti del suo ultimo progetto editoriale: Il mondo nei miei occhi (esclusiva mondiale di Mondadori Electa, in quattro lingue diverse, pagine 208, euro 49,90). Dopo il successo di Una vita per immagini, nominato miglior libro di fotografia dell’anno dal Times, mentre le sue mostre tematiche girano per le città del mondo (“Icons” è in programma dal 23 dicembre al 2 maggio 2021 a Conegliano, Treviso), ecco nuove visioni di viaggi nel tempo e nei luoghi, di andate e di ritorni, con la capacità e lo stile di McCurry di cogliere l’anima delle persone, impegnate in semplici attività quotidiane. «In molte parti del mondo la gente svolge il proprio mestiere all’aperto su un marciapiede, un androne, un vicolo o una bancarella improvvisata. La loro ubiquità offre a tutti la comodità di potersi fermare in qualsiasi momento per farsi tagliare i capelli, riparare le scarpe, sistemare i denti, pulire le orecchie o predire il futuro», scrive McCurry. «Il potere della quotidianità» – come lo definisce lo scrittore Pico Iyer che firma la prefazione – che McCurry esercita da Cuba al Myanmar, dall’Etiopia all’India, dal Giappone all’Italia, restituendoci – continua Iyer – «il cuore pulsante del suo lavoro, che consiste nel trovare il lato umano nascosto dietro i titoloni dei giornali e, così facendo, ripristinare l’umanità di tutti noi». Anche quando i suoi scatti documentano conflitti, culture che rischiano di sparire, tradizioni millenarie e contraddizioni contemporanee. L’umanità che incontra fra i profughi, i rifugiati in Giordania, nel 2014 e nel 2019, visitando il campo profughi di Zaatari, appena sotto il confine con la Siria: la foto di una bambina dai riccioli biondi con gli occhi di un verde cangiante, è emblematica. Accanto una frase di Khaled Hosseini: «I rifugiati sono madri, padri, sorelle, fratelli, bambini che condividono le nostre stesse speranze e ambizioni, con l’unica differenza che uno scherzo del destino ha legato le loro vite a una crisi globale di dimensioni senza precedenti». Parole che danno voce alle sue foto. Pakistan, Macedonia, Togo, Cambogia, Cina. Il giro del mondo nei “suoi occhi” per tornare da dove abbiamo iniziato, a Cuba, che McCurry coglie in tanti spaccati di quotidianità. «All’Avana – racconta – esiste una strada chiamata “La via dei gemelli” per lo straordinario numero di coppie di fratelli che vivono qui. C’è chi attribuisce il fenomeno alle caratteristiche dell’acqua locale e chi a un albero magico che cresce nel quartiere. In ogni caso, nessuno si lamenta». Quei bimbi sono lì, camminano tenendo la mano alla loro mamma. In attesa di poter vedere il mondo con i loro occhi.