Lo scrittore. Muñoz Molina: «Dalla pandemia lezioni di fraternità»
Lo scrittore spagnolo Antonio Muñoz Molina
Del confinamento gli manca «l’intuizione di possibili cambi a un’altra maniera di vivere, meno retta dall’angoscia, dal rumore e dall’avidità ». Nella calma forzata, durante i tre mesi in cui il mondo si è fermato per la pandemia, Antonio Muñoz Molina ha tenuto un diario. Divenuto un libro che ha nel titolo l’interrogativo essenziale: Volver a dónde, “Tornare dove” (Seix Barral, pagine 344, euro 20,90). Solo in apparenza una cronaca testimoniale dello scrittore, membro della Real Academia de la Lengua Española e premio Principe de Asturias delle Lettere 2013, già cronista sul campo degli attacchi alle Torri Gemelle quando dirigeva l’Instituto Cervantes di New York. Divisa su tre piani temporali, la narrazione è il memoir del confinamento, presieduto dalla paura e dai gesti quotidiani per la sopravvivenza, in un andare e venire fra il risveglio nella “nuova normalità” – nel giugno 2020 – e i ricordi dell’infanzia nei campi a Úbeda, in Andalusia, dipanati dal balcone della sua casa a Madrid, dove Muñoz Molina cura pomodori e gelsomini con la stessa premura con cui suo padre coltivava l’orto. «La pandemia ci ha ricordato che al di sopra della libertà o uguaglianza, legittimamente rivendicate, facciamo parte di una umanità comune – rileva l’autore –. Non dimenticare la fraternità è necessario, così come un cambio di paradigma».
È lei stesso a rilanciare la prima domanda: tornare dove? Al mondo pre-pandemico?
Dobbiamo stare attenti a non cadere nella tentazione di rifugiarci nell’idea di un passato carico di virtù. Personalmente, se ripenso a com’era la Spagna prima dello sviluppo democratico, non credo che sia desiderabile tornare indietro. Questo Paese, che fa parte della mia memoria di un’infanzia amata, era anche molto povero, arretrato, disumano nella quotidianità per lavoratori, donne, uomini, per i più deboli ed emarginati.
Meglio diffidare della nostalgia?
Nel mio caso, la stessa scrittura ha rievocato altri ricordi. Avevo cominciato a scrivere della Feria di San Miguel, una sagra del vino, a settembre a Úbeda. Improvvisamente ha fatto irruzione l’immagine dei cabezudos, i pupazzi giganti che sfilavano con la banda del paese, e il fatto che davanti a loro andavano i cosìddetti tontos i disabili mentali, scherniti, e questo era ritenuto normale. Non si può addolcire il passato dimenticando la rozzezza di chi governava, il modo in cui i funzionari si accanivano sui più u- mili, in cui i padri erano autorizzati a picchiare i figli, le donne senza diritti dovevano faticare nei campi, ma prima accendere all’alba il fuoco, preparare da mangiare, lavare i panni a mano nell’acqua fredda del pozzo.
Perché un libro-testimonianza?
Per la necessità, ancora più urgente nelle circostanze eccezionali che stavamo vivendo, di mettere la mia capacità espressiva al servizio della cronaca, senza concessioni all’immaginazione. Non c’è meno ambizione letteraria che in un romanzo, ma con la responsabilità e la disciplina di fotografare ciò che stavo vivendo. Di registrare sia la parte pubblica che di confessione privata, perché il confinamento ci ha colpiti in tutte le dimensioni, nel più intimo. Nel presente non sappiamo che cosa accadrà dopo, ed è importante fissare questo stato psicologico, perché subito svanisce. E in maniera retrospettiva si interpreta, si corregge, si dimentica, c’è interesse a mentire, a trasfigurare i ricordi. Volevo dare una testimonianza concreta dall’angolo in cui mi trovavo. Ovviamente ha in questo un limite. Come scriveva Philip Roth, «ho fatto ciò che ho potuto con quello che avevo».
Una narrazione in cui anche i personaggi sono reali…
Lo sono in maniera naturale, conoscenti, persone vicine, amici impegnati nell’assistenza sanitaria. C’è il ritratto di un amico molto caro, che si offrì di andare in Cina pilotando un aereo affittato a Iberia per raccogliere materiale sanitario e ha viaggiato solo sorvolando per quindici ore un mondo paralizzato. Il libro nasce dall’osservazione delle persone incrociate per strada, delle voci alla radio, la disperazione di una lavoratrice in una residenza di anziani, la nostra mobilitazione davanti all’ospedale Gregorio Marañon in difesa della sanità pubblica. E dalle conversazioni al telefono, che nel confinamento assumevano un’altra forza. Nel presente disabitato la memoria era molto più fertile. E questo porta a riflettere sulla catena della vita.
In che modo?
Per una persona della mia generazione, con origini comuni come le mie, conduce alla coscienza di essere stato testimone di un mondo contadino che sembra lontanissimo, già scomparso. Da qui la volontà di raccontare, oltre al presente, le storie che mi narrava mio nonno, trasmesse da mia madre o dai miei zii. Sono stati la parte attiva della società durante un secolo, la classe lavoratrice, che però non lascia traccia. Mia madre ha 91 anni e nessuno leggerebbe la sua biografia. Sono stato un anno e mezzo senza poterla vedere, ma la distanza, in cui molti sono morti, ha reso ancora più intensi i ricordi familiari, la necessità di nominarli. Oltre alla proiezione del passato, c’è quella del futuro nei figli, nei nipoti, che come viaggiatori nel tempo di ritorno dal futuro, ci interpellano da una dimensione dell’avvenire non astratta.
Che cosa pensa dell’affermazione, ripetuta come un mantra, che “siamo usciti più forti dalla pandemia”?
Non c’è modo di comprovarla, e non serve ad acquisire una conoscenza utile. Mi sembra più importante lo sforzo di verificare che cosa si è fatto bene e che cosa male, cosa ha funzionato oppure no. Non dipende da valutazioni soggettive, dall’interrogarsi se ne siamo usciti migliori o peggiori, ma da riscontri concreti su come hanno agito alcuni collettivi o risposto alcune istituzioni. Nel nostro Paese lo scontro politico ha prevalso anche in un momento così decisivo. Ma siamo anche un Paese con i migliori tassi di vaccinazione e minore negazionismo. Per questo bisogna focalizzare il concreto, cogliere i diversi aspetti, perché quanto più si è precisi meno spazio resta alle speculazioni e ai deliri.