RIFLESSIONE. Dalla lettera di Paolo al post-moderno
È «Una fede amica dell’uomo» quella che il patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, presenta al pubblico nel libro che Cantagalli manda ora in libreria (pp. 140, euro 8). L’invito a riscoprire la bellezza e la consistenza del cristianesimo, il senso dell’essere discepoli, l’impegno per la città dell’uomo a servizio del bene comune. Si tratta delle meditazioni che l’arcivescovo ha proposto durante l’anno della fede alla sua diocesi e che ora vengono sistematizzate e offerte alla riflessione anche dei non credenti. Tre infatti sono le parti del volume: un «Invito alla fede», l’analisi de «La fede cristiana in un contesto di secolarizzazione diffusa» (in tale ambito è collocato il brano su «Paolo, evangelizzatore a Corinto» che proponiamo in questa pagina) e infine un breve «Invito alla dottrina sociale della Chiesa», con approfondimenti sulla dignità della persona umana e «Sussidiarietà e solidarietà».«Una notte, in visione, il Signore disse a Paolo: "Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso". Così Paolo si fermò un anno e mezzo, e insegnava fra loro la parola di Dio» (At 18,9-11). Il contesto in cui si muove Paolo potrebbe sembrare profondamente diverso da quello di oggi: Corinto è città greca del primo secolo successivo a Cristo e non una metropoli del XXI secolo come Parigi, New York o Rio de Janeiro; Paolo è un ebreo di duemila anni fa, convertitosi a Gesù Cristo, e non è certo l’uomo post-moderno dell’inizio del terzo millennio. Eppure i sentimenti che l’Apostolo avverte – sgomento, solitudine e paura – sono i nostri stessi sentimenti: questi stati d’animo ci appartengono ogni qualvolta siamo impegnati in un’impresa ardua e in un contesto difficile in cui percepiamo di essere piccoli ed appartenere a una fragile minoranza. Paolo prova, entrando a Corinto, una sensazione di vera oppressione, si sente schiacciato da una realtà più grande di lui. Allora il Signore gli si manifesta come presenza che lo sostiene e rassicura e l’Apostolo si sente dire dal Signore: «Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso» (At 18,9b-10). Paolo, ossia colui che evangelizza, non è mai solo; egli, infatti, viene rassicurato che tra quelle case, quelle strade, quelle piazze, sperimenterà, come neppure immagina, la presenza fedele e l’aiuto premuroso del suo Signore (…). L’apostolo Paolo, dopo il fallimento di Atene, all’Areopago, dove si era espresso in termini culturali elevati non tralasciando di citare autori noti a chi lo ascoltava (cfr. At 17,22-31), decide di lasciare quella città, la ville lumière della Grecia. Non viene scacciato, come spesso gli accadeva, è lui che decide di andar via.Così parte per Corinto, vi entra intimorito e portando con sé il senso del suo recente fallimento e di tutta la sua impotenza. Corinto poteva essere considerata tanto città greca quanto città romana ma, agli occhi di Paolo, era soprattutto una città pagana, profondamente pagana. Comprendiamo bene lo stato d’animo dell’Apostolo colpito dalla sua imponenza e, soprattutto, dagli ideali di vita dei greci lontani anni luce dallo spirito del Vangelo. Questo eloquente testo autobiografico ci aiuta a comprendere: «Anch’io, fratelli, quando venni in mezzo a voi non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola e della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,1-3). Sia al tempo di Paolo come oggi, di fronte a realtà che ostacolano la nostra volontà di annunciare il Regno di Dio, ossia Gesù, non dobbiamo lasciarci intimorire. Piuttosto anche noi siamo chiamati, come l’apostolo Paolo, a riscoprire la presenza di Gesù per dare energie nuove alla nostra azione evangelizzatrice e lasciando che sia lui a portarci. I due pellegrini di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35) esprimono il comune sentire del discepolo di ogni epoca quando si è dinanzi all’insuccesso e alla delusione; Luca, nel suo Vangelo, descrive uno stato d’animo che va oltre quello di Cleopa e del suo compagno di viaggio. Il Signore è vivo, anzi è il Vivente. E per questo è realmente vicino a noi, è presente nella nostra vita e, Risorto, sempre precede i suoi.Può capitare che lui parli con noi e noi non capiamo che è lui e, così, continuiamo a non riconoscerlo poiché, troppo presi e rinchiusi in noi stessi, rimaniamo prigionieri dell’uomo vecchio che è in noi, prigionieri delle nostre paure. Il discepolo si caratterizza per il legame personale con il Signore: un rapporto vero, sincero, fatto d’intimità. È quanto esprime l’evangelista Marco al capitolo terzo del suo Vangelo, quando narra la vocazione degli apostoli (cfr. Mc 3,13-19). L’essere mandati è qualcosa che viene dopo il dimorare presso il Signore. Il «rimanere» presso di lui e l’«andare», perché mandati da lui, appartengono, intimamente, ai discepoli e li costituiscono nelle loro persone. È solo restando con Gesù – l’unico in grado di plasmare l’io del discepolo – che possiamo consegnare il nostro pensiero, la nostra parola e il nostro modo d’essere al suo pensiero, alla sua parola e al suo modo d’essere. In particolar modo, quando i discepoli vengono mandati, come Paolo, ad annunciare Gesù Cristo in ambienti ancora lontani dal Vangelo, come la città di Corinto, ciò che più conta, per il discepolo, è la vicinanza e la confidenza con Gesù, ossia il rapporto personale che lo lega a lui (…). La famiglia, gli amici, la scuola, l’università e l’ambiente di lavoro sono gli ambiti dove i discepoli sono chiamati a portare la testimonianza e a evangelizzare. Questo impegno è tanto più urgente quando un tale ambiente non è stato ancora segnato dalla persona del Signore Gesù, ossia dal Vangelo, il buon annuncio cristiano.