Agorà

Testimonianza. Dall’Oglio, la fede del deserto

Antoine Courban sabato 6 giugno 2015
Io vengo dal cuore del Levante arabo. Le nostre società non sono secolarizzate come le vostre. Dopo quattordici secoli, malgrado delle difficoltà, il vivere insieme multireligioso e multiculturale ha potuto operare una sorta di osmosi inconsapevole, che permette oggi di affermare «non sarei il cristiano che sono senza la parte di islam che è in me», ma anche «non sarei il musulmano che sono senza la parte di cristianesimo che è in me». Questo è divenuto possibile perché i cristiani di diverse tradizioni liturgiche si sono appropriati, dopo molto tempo, della lingua araba e l’hanno protetta. Nel Levante l’arabo non è solo la lingua del Corano, ma anche quella di tutte le liturgie cristiane. Pregare e lodare Dio nella stessa lingua è un autentico successo culturale, testimonianza, per i cristiani, del genio dell’Incarnazione. Pregando per il rapido ritorno di padre Paolo Dall’Oglio tra le sue genti, in Siria e non solo, esprimo il desiderio che questa osmosi possa essere condivisa e vissuta dalle future generazioni. Non parlerò di politica. Sono un cittadino libanese. La situazione siriana mi riguarda in primo luogo sul piano umanitario e su quello del vivere insieme, tra cittadini di religioni e culture diverse. Il mio Paese, il Libano, accoglie attualmente un milione e mezzo di rifugiati siriani a fronte di una popolazione complessiva libanese di quattro milioni. La violenza più estrema ha dei limiti. Il male avrà sempre dei confini. Solo il bene rimane infinito. Oggi noi possiamo andare fino al confini del male, usare ogni violenza, distruggere tutto. Ma domani, cosa faremo? Domani non potremo che ricominciare a vivere insieme: perché siamo uomini, quindi portiamo in noi come segno del divino «il gusto innato del bene, del vero e del bello», come ha detto papa Benedetto XVI al Palazzo Presidenziale di Beirut nel settembre 2012. Per parlare di questo Oriente, che è quello di padre Paolo Dall’Oglio, voglio rendere omaggio alla sua opera come testimonianza in favore dell’umanesimo integrale, né teocentrico né antropocentrico. Un umanesimo nel quale l’uomo non è schiavo di Dio né suo rivale. L’umanesimo integrale, nella fedeltà all’Incarnazione, riconcilia nell’uomo il cielo e la terra, e costituisce la pietra angolare dell’ordine politico di domani in un mondo travolto dalla spirale dell’odio.Oggi è l’odio che sembra dominare. La maggioranza delle ideologie contemporanee sono utopie negative, ispirate dall’odio. Tutti gli antropologi e gli psicologi conoscono il carattere iniziale dell’odio sotto la forma di “narcisismo primario”, fase iniziale e indispensabile dello sviluppo dell’individuo. Pertanto oggi il lungo apprendimento dell’alterità e la sua umanizzazione sembrano attenuarsi. L’odio non si vergogna più di nascondersi dietro bei discorsi, sembra quasi divenuto il principio di una morale nuova: «Odio, dunque sono».La prima volta che ho sentito parlare di padre Paolo è stato nel 2000 ad Aleppo. Mi trovavo con un amico aleppino, una persona di grande cultura, un pio e sincero musulmano. Prendevamo una tazza di tè alla Porta di Antiochia quando, conversando, mi ha parlato della sua visita al monastero di Mar Moussa e del suo incontro con padre Dall’Oglio. Mi ha detto: «Mi ha sorpreso sentirmi a mio agio con lui, proprio come con te. Non c’era traccia in lui di quella barriera che percepisco quando incontro un cristiano non orientale». Ciò che sorprese maggiormente il mio amico è che Paolo aveva potuto impregnarsi dello spirito del Levante installandosi nel deserto, in un monastero sconsacrato del quale aveva fatto una fortezza del dialogo, della tolleranza, della riconciliazione e dell’amore per l’altro. Questo mio amico musulmano non conosceva il “Libro della consolazione” di Isaia: «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato”» (Is 40,3-5). Deserto, bocca e carne sono qui associati. Il deserto, il midbar delle antiche lingue semitiche come l’ebraico, è lo spazio arido o quello del caos primitivo, ma anche la bocca come luogo della parola. Nel midbar/deserto/bocca la Parola trasforma il caos della natura in un cosmo articolato. Dovendo radicare l’opera di padre Paolo Dall’Oglio in una tradizione questa sarà allora quella che origina da uno dei testi più belli del cristianesimo, la Lettera a Diogneto, scritta a questo amico pagano da un cristiano anonimo di Siria duemila anni fa per parlargli di quel cristianesimo che questi definiva “superstizione”. I cristiani a quel tempo erano pochissimi, vivevano in un contesto ostile che li perseguitava. Il cristianesimo che rivela questa lettera è innanzitutto una disposizione aperta all’Altro, a tutti gli altri. Il gruppo cristiano, in quei tempi lontani, non era una minoranza allucinata dall’ossessione identitaria e preoccupata dalle briciole di potere che la maggioranza poteva concedere loro: «L’anima è nei corpi ciò che i cristiani sono nel mondo». L’unica preoccupazione è mantenere la coesione dei corpi, fare di tutto affinché tutti componendolo armoniosamente lo impegnino il bene comune. È quello che padre Paolo chiamava il «vivere personalmente e individualmente il proprio battesimo». I cristiani della Lettera a Diogneto non reclamano per se stessi alcuna distinzione specifica: «Non si distinguono dal resto degli uomini né per il loro paese, né per la loro lingua, né per loro specifici modi di vivere: non hanno altre città che la vostra, non hanno altra lingua che la vostra, né abitudini singolari»: dove vivono «si conformano agli usi che trovano stabiliti, ma pongono sotto gli occhi di tutti il sorprendente spettacolo della loro vita difficile da credere». Così era per padre Paolo, lo straniero totalmente a casa sua in Siria per via della sua fede cristiana, che gli ha fatto apprendere la dolcezza infinita di Gesù di Nazareth, sempre definitosi il figlio dell’uomo.