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COSTUME. Dal Gnam al Miaao: se il museo si mangia le parole

Alessandro Beltrami domenica 28 febbraio 2010
Se pensate che il Mambo sia una discoteca o la Gnam un locale per buongustai, siete fuori strada o è molto che non girate per musei. È un fenomeno nato in sordina e montato fino alle dimensioni di uno tsunami. Ormai in Italia sembra che non ci sia museo che possa fare a meno di un acronimo come nome. MAMbo è infatti il Museo di arte moderna di Bologna. Nato nel 2007, raccoglie in sé Galleria civica d’arte moderna, Villa delle Rose, Museo per la Memoria di Ustica, Museo e Casa Morandi. La Gnam è invece la contrazione della storica Galleria d’Arte Moderna di Roma. Nella capitale non è sola: ci sono il MACRO, Museo di Arte Contemporanea di Roma, e il MAXXI, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, la cui sede progettata da Zaha Hadid è stata da poco inaugurata.Tra musei che cambiano il nome in corsa, nuove realtà e qualche esempio storico, tutto lo stivale è un pullulare di sigle. Qualcuna azzeccata, altre decisamente meno. Ad esempio a Torino hanno sede il MAO, Museo d’Arte Orientale, e il MIAAO, che non ha a che fare con la zoologia ma è il Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi. A Milano c’è il PAC, il Padiglione d’Arte Contemporanea, nato nel dopoguerra ma "siglato" dal 1979. Il Cimac è invece uno dei pochi casi con un percorso all’inverso: il Civico Museo di Arte Contemporanea è diventato infatti il Museo del Novecento. A Napoli abbiamo il MADRE, Museo d’Arte contemporanea Donna Regina, inaugurato nel 2005, e l’ancora più recente PAN, Palazzo delle Arti di Napoli. In Calabria dal 2008 opera il MARCA, Museo delle Arti di Catanzaro. In Puglia c’è invece il MArTa (da leggersi alla francese): dal 20 dicembre 2007 è il nuovo nome del Museo Nazionale Archeologico di Taranto.Il principio di tutto sta oltreoceano. Il primo fu il MoMA, il Museum of Modern Art di New York. Era il 1929. In Italia uno dei primi musei a dotarsi di un acronimo è stato il MART. «Il museo esisteva già ma ha assunto questo nome nel 1987», spiega Flavia Fossa Margutti, responsabile della comunicazione del MART. «Il nome Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, era troppo lungo. Occorreva un nome facile da ricordare. Nacque MART, che somma la M di Museo a Art, ma insieme contiene le iniziali di Rovereto e Trento. Da solo però l’acronimo non è bastato. Il nome ha inciso nel momento in cui è stato ridisegnato il logo nel 2002, in coincidenza con l’apertura a Rovereto del nuovo spazio progettato da Mario Botta. L’accoppiata è fondamentale. Un logo sbagliato può rovinare la comunicazione di un museo».Non è un caso che molte gallerie si affidino a consulenti esterni per lo studio dell’acronimo e della comunicazione integrata. Sempre più vicini a un approccio aziendale, i musei ricercano un proprio brand. «La questione è la necessità di posizionarsi sul mercato e di distinguersi nell’offerta culturale», spiega Stefano Baia Curioni, direttore della laurea Specialistica di Economia per l’arte e la cultura all’Università Bocconi. «E questo accade a partire dall’impatto sugli spazi urbani. I musei tendono a marcare il territorio costruendo nuovi edifici o affidandosi a ristrutturazioni. Una seconda linea riguarda le varietà di un’offerta che non è solo artistica: concerti, spettacoli, eventi. Tutto ciò deve trovare un cappello dal punto di vista della comunicazione. E l’acronimo è il sistema preferito. Nei casi migliori ci troviamo di fronte a un’ibridazione tra marketing e strategie culturali».MAMbo, MAXXI, MADRE... basta la parola? «Quando è riuscito – spiega Pierluigi Sacco, docente di Economia della Cultura alla IUAV di Venezia – l’acronimo dà personalità al museo e suggerisce al pubblico significati ulteriori. L’acronimo giusto può creare appetibilità nei confronti dei soggetti sostenitori e, nel caso dei musei di arte contemporanea, dei collezionisti. Da solo però non basta. Quello che vale davvero è la sostanza culturale».L’onda degli acronimi è dilagata soprattutto in provincia, dal MAGa di Gallarate e il MAGi900 di Pieve di Cento al MAGra di Granara fino al MACK di Crotone, le sigle più o meno fantasiose non si contano. «La proliferazione di acronimi, molti dei quali scadenti, rischia di saturare il campo e vanificare l’obiettivo identitario», commenta ancora Sacco. «Vince quindi chi si muove per primo. Altrimenti si deve sfoggiare l’acronimo perfetto». Da strumento per l’identità l’acronimo rischia così di trasformarsi in maschera opaca. Un autogol. «Il fiorire questi acronimi è spesso sintomo di una comunicazione globalizzante che tradisce l’identità», dice a sua volta Paolo Biscottini, direttore del Museo Diocesano di Milano. «Non si riesce a capire la differenza che c’è un museo e l’altro. E quando il nome si trasforma in una sigla che sembra quella di un antibiotico non è più chiaro nemmeno che tipo di museo sia. L’acronimo ha senso se nasce da una storia in cui il nome vero è noto e diffuso». In alcuni casi, come per le mostre di arte contemporanea e per identificare il gruppo di sostenitori, il Museo Diocesano utilizza la sigla MuDi. «Per le attività istituzionali usiamo sempre il nome per esteso. Il nostro museo crede nella chiarezza della propria identità, ancorché possa suscitare problemi con un pubblico che non ama l’aggettivo "Diocesano". Non barattiamo la verità per un nome à la page».Il critico d’arte Philippe Daverio affonda il coltello: «Altro che identità! L’acronimo è un modo per nascondersi e illudersi di essere contemporanei. Questi musei hanno paura di se stessi. Tutte queste sigle artificiali sono sintomo di un complesso di inferiorità verso i grandi musei stranieri il cui nome si è contratto per evoluzione naturale, come il Met. A mio parere l’acronimo non porta bene. Gli si attribuisce un potere iniziatico più grande dei risultati effettivi. Jack Lang aveva disseminato la Francia di Centre Régional d’Art Contemporain: i CRAC. Mai nome fu più profetico. I musei che hanno l’acronimo più significante sono i più pericolosi. MAXXI contiene in sé una volontà di potenza che al momento non ha. L’acronimo consente da subito però una cosa che piace a molti: l’ipocrisia».