Filosofia. Dal caso al destino: Günther Anders e le vite migranti
Uno degli scatti di Antonio Biasiucci esposti a Procida nella mostra "Una sola moltitudine" nell’ambito del programma da Capitale italiana della Cultura 202
Cogitor ergo sum: per il teologo Karl Barth il ribaltamento radicale della nota formula di Cartesio ( cogito ergo sum) sta a significare l’affermazione di una trascendenza: «Sono pensato, dunque sono». È l’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio che rende l’uomo un soggetto libero. Anche il filosofo Günther Anders (1902-1992) capovolge il motto di René Descartes in cogitor ergo sum, ma in una versione laica: «Mi si pensa, dunque sono», riferendosi alla condizione esistenziale dell’uomo del XX secolo, alle tragedie della seconda guerra mondiale e della Shoah, della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e, per quanto lo riguarda direttamente, alla situazione di profugo ed espatriato. Tutto ciò non può non spingere alla necessità di una correlazione fra gli esseri umani. Marito di Hannah Arendt e cugino di Walter Benjamin, costretto a fuggire dalla Germania nel 1933 per le sue origini ebraiche, Anders descrive la sua vicenda in un articolo apparso per la prima volta sulla rivista Merkur nel 1962, e ora tradotto da Donzelli col titolo L’emigrante (pagine 88, euro 16,00), con un’introduzione di Orlando Franceschelli e la postfazione di Florian Grosser, facente parte dell’edizione tedesca del volume edita un anno fa. L’inizio è illuminante: «Io non ho avuto una vita. Non ricordo. Gli emigranti non ci riescono. Di quel singolare, 'la vita', noi, incalzati dalla storia universale, siamo stati defraudati». Anders si addentra con lucidità ed amarezza in quella che a fatica menziona come vita (in latino nell’originale) perché quello che gli è accaduto, i continui trasferimenti prima a Parigi poi in America per fare ritorno in Europa nel 1950, stabilendosi a Vienna, con tutto quello che hanno significato in perdita di dignità e identità, lo hanno lasciato muto, spossessato di quelle qualità dell’esistenza che la possono rendere umana. «Chiaramente – spiega – il fatto che noi non abbiamo avuto una vita non significa che la materia della nostra esistenza sia stata povera. Se potessi radunare intorno a me tutte le figure che un giorno ho impersonato, o che mi hanno portato sulle loro spalle nel tempo e nello spazio fino a questo qui e ora, se potessi impilare dinanzi a me tutti i faits divers che mi sono capitati, ebbene, per numero e quantità tutto ciò arriverebbe a costituire una ricca esistenza umana. E tuttavia non emergerebbe nessuna singola vita, ma solamente vitae. Solamente vite, al plurale». Anders è il pensatore che più di ogni altro nel secolo scorso si è interrogato sull’orrore della bomba atomica, facendo di Hiroshima e Nagasaki un punto di non ritorno per l’umanità e auspicando, in base alle sue radici ebraiche e cristiane - che vanno riscoperte nonostante professasse un’irreligiosità di fondo -, che l’uomo potesse trasformarsi in «colui che può prevenire l’apocalisse», come scrisse nell’opera sua più famosa, L’uomo è antiquato (1950). Era amico di Gabriel Marcel e non denigrò affatto la scelta di Edith Stein di convertirsi al cristianesimo. E con la Arendt, dalla quale si era separato ben presto, nel 1937, mantenne un dialogo fruttuoso, come emerge dalla loro corrispondenza, apprezzando soprattutto il saggio Noi profughi (1943), in cui ci si ritrovò pienamente. Ma cosa ha da dirci oggi la lettura del libro di Anders? Innanzitutto la distinzione fra emigrante e immigrato, categoria che egli rifiuta. Quella di immigrato è un’etichetta applicata ai nuovi arrivati in un paese da parte di chi gode del privilegio di avere una posizione di cittadinanza garantita. Invece chi è costretto ad espatriare si vede come un emigrato e guarda a se stesso in rapporto al contesto di origine al quale ha dovuto rinunciare. Compresa ovviamente la sua lingua e la sua cultura. Ciò non significa che Anders guardi negativamente a quelle che sarebbe state le sue nuove patrie, la Francia e gli Stati Uniti, anzi. «La maggior parte di noi – egli sostiene – ardeva dal desiderio di trasformare nel destino di una seconda patria la casualità della costa che un giorno aveva raggiunto, di lasciarsi 'portare' dal nuovo paese, che esso fosse in grado di farlo o meno, che ne avesse voglia o meno, non vedeva l’ora di esserne riconosciuta, di contare davvero al suo interno, anziché essere conteggiata dall’ufficio stranieri come una delle tante, tantissime ultime ruote del carro». Coraggio, malinconia, vergogna sono termini che tornano spesso in queste riflessioni. Il coraggio di «lasciarsi dare del codardo o del traditore», di vivere un’esistenza controcorrente e spesso da oppositore subendo ogni tipo di isolamento. Ma anche l’abisso della malinconia e della nostalgia, e la vergogna per le umiliazioni affrontate, per aver dovuto vivere mesi e mesi solo pensando a sopravvivere. «Hanno vissuto – sottolinea Anders – nella vergogna, per esempio, tutti quelli che, tradotti in un lager con la prospettiva di diventare rifiuti, sono stati costretti a trascorrere i giorni che restavano loro nel-l’attesa di essere eliminati. Rispetto a questa, la nostra vergogna era evidentemente puro privilegio. In effetti, chi è ancora vivo sente l’ingiustizia di tale privilegio come una vergogna ulteriore; ed esiste qualcosa come una comunità, piena di vergogna, composta da quelli che per caso non sono finiti nelle camere a gas». Il riconoscimento del male supremo della Shoah genera questo sentimento in chi è riuscito a trovare scampo nella fuga prima che accadesse l’irreparabile. Così il filosofo scrive parole di acuta sofferenza per la sorte di Benjamin, che non è riuscito a salvarsi ed è sepolto in una sperduta località dei Pirenei. Nel 1933 Anders affrontò il tema dell’emigrazione in una poesia che così esordisce: «Dietro l’atrio di questa stazione / più nessuno sa chi sei». Primo abbozzo di una meditazione che in questo libretto rende giustizia alla condizione morale ed emotiva dell’emigrante, la cui presenza non può essere considerata «semplice eccedenza». Ma ci sono anche parole di gratitudine per aver salvaguardato la propria lingua ed averne scoperta una nuova o altre ancora, per aver potuto dare spazio a quella vita intellettuale che ha permesso a tanti profughi di andare oltre «un’esistenza balbuziente » grazie alla scrittura. Proprio per questo, egli conclude, «non c’è nessuno che meriti la nostra dedica quanto lei, la nostra maestra: l’epoca buona di miseria del nostro esilio».