La novità. Da Ringo a Bonham, nasce il Museo della batteria
Il modello di batteria utilizzato da Ringo Starr esposto al Museo inaugurato a Fano
Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Who. Sfila il grande rock sotto lo sguardo di chi entra nel Museo della batteria di Bellocchi di Fano, che apre oggi pomeriggio al pubblico dopo l’inaugurazione ufficiale di tre settimane fa. È il primo in Italia, frutto della “bacchetta” magica di due musicisti che hanno fatto della loro visionarietà una vera e propria mission, con l’intento anche di far conoscere alle nuove generazioni uno strumento sempre più messo sotto scacco dall’avvento di basi ritmiche artificiali esasperate dall’elettronica e dalla computerizzazione musicale.
Loro sono il batterista Daniele Carboni e il cantautore Armando Dolci, ex pupillo di Lucio Dalla che con la etichetta Pressing gli produsse vent’anni fa (intervenendo anche nei cori e alle tastiere) l’originalissimo album Non dormo mai. Primo weekend di visite guidate dunque, tra grancasse, charleston, timpani e piatti lungo un secolo di storia della musica tra pezzi unici e memorabilia. «Cominciò tutto trent’anni fa, anche grazie all’avvento di e-Bay che mi permise di acquistare in giro per il mondo alcune rarità che sono qui esposte» racconta Carboni. Il suo rapporto con la batteria era iniziato a 14 anni finché fondò una cover band riproponendo i successi dei Deep Purple forte anche di una vocalità alla Ian Gillian. Grazie a Internet intercettò una batteria uguale a quella che suonava Ian Paice a fine anni 60: una Ludwig Black Oyster.
«Un modello personalizzato, perché sono anch’io mancino come l’ex batterista dei Deep Purple e alla fine era quasi inevitabile che diventassimo amici. Tanto che nel 2000 – ricorda Carboni – l’ho portato al Teatro della Fortuna di Fano dove si è esibito suonando la mia batteria, che si differenzia dalla sua solo per il suo autografo. Non so quanti aneddoti mi ha raccontato Paice sui più grandi batteristi dell’epopea del rock, dal fatto che Ringo Starr abbia iniziato con una Premier per poi passare a una Ludwig, che il compianto Charlie Watts dei Rolling Stones usasse una Gretsch o che John Bonham dei Led Zeppelin suonasse una Ludwig con misure extra-large».
Notizie di non poco conto, se si pensa che determinati suoni sono entrati con forza nella storia contribuendo a connotare anche il costume di un’epoca. Un Novecento cominciato in America con la musica popolare suonata per strada. Il percorso museale si snoda così partendo da alcune antiche batterie datate anni Venti, utilizzate nei primi night club. Fino ad allora le marching band dovevano disporre di almeno quattro elementi, tra grancassa, rullante, piatti e tamburo. Poi agli albori del jazz nessun gestore di locali poteva permettersi di pagare quattro musicisti solo per le percussioni. Così, per esigenze economiche, è nata la moderna batteria.
«La prima innovazione la fecero i fratelli Ludwig – spiegano Carboni e Dolci –, si trattava del pedale per la grancassa: dalle mani ai piedi. Mentre non si sarebbe più usato il piede per il low boy, l’antenato del charleston colpito con la bacchetta». Al Museo di Fano ci sono anche diverse batterie jazz degli anni 40 e 50, dalla tedesca Sonor alla Rogers alla Slingerland suonata da Billy Cobham e Buddy Rich, con una sezione dedicata anche alla produzione italiana, dalle Hollywood di Meazzi alla Max Roach. Ma il “piatto” forte sono le batterie dell’epopea rock. Pezzi unici dello stesso anno, con identica finitura e misure delle batterie originali, modelli gemelli di quelli che i più grandi batteristi ordinavano su misura ai produttori.
«È probabile che alcuni dei 25 strumenti qui esposti siano capitati anche in mano a Ringo Starr, Watts e colleghi e che poi loro abbiano acquistato il modello gemello – spiega Carboni –. Per esempio la batteria di Keith Moon degli Who che abbiamo è probabile che sia appartenuta proprio a lui perché Moon (come anche Ringo) la voleva costruita con le meccaniche dell’americana Rogers e i fusti della inglese Premier che sono molto più robusti e resistevano meglio ai calci che tirava suonando. Per ogni ordine venivano costruiti almeno tre esemplari perché erano batterie molto soggette a usura e rottura».
Ma a Fano la regola “museale” del guardare e non toccare vale solo fino a un certo punto. L’intento è infatti quello di avvicinare le nuove generazioni intrise di rap e trap al richiamo di una ritmica “suonata”. Sono stati allestiti così spazi didattici per l’insegnamento di batteria e anche di basso e un palco per l’esibizione di giovani alle prime armi. «Diamo poi la possibilità di suonare realmente – spiega Armando Dolci, che segue personalmente questa sezione – con studi di registrazione, cabina e sale prove. Oltre a raccontare la storia della batteria diamo la possibilità di cimentarsi davvero con la musica suonata. Anche la batteria è una vittima della vita in città, in appartamento suonarla è proibitivo».