Era il primo aprile 1979 quando in Iran l’ajatollah Khomeini proclamava la Repubblica islamica. A trent’anni dalla rivoluzione, l’unico paese al mondo in cui il cui potere politico è nella mani del clero sciita continua a digrignare i denti, a minacciare l’Occidente, e non riconoscere lo Stato d’Israele, a reprimere le libertà civili e religiose. L’Iran ha una popolazione che per il 70 per cento ha meno di 30 anni, e che emigra in massa ( 220mila giovani l’anno), anche perché il tasso di disoccupazione è al 18 per cento. Ma possiede il 9 per cento delle riserve mondiali di petrolio e il 15 per cento delle riserve di gas. È un Paese sempre più indispensabile all’Occidente, ma sempre più pericoloso. Il potere degli sciiti nel mondo islamico cresce: i rapporti di forza con i sunniti si sono ribaltati in Iraq, Hezbollah ( il Partito di Dio) si rafforza, e all’interno dello stesso Iran il loro peso politico è sempre più evidente: radicali, popu-listi, sostenitori dello stato teocratico sono determinati a esportare la rivoluzione khomeinista all’interno dell’islam. Ne parla ampiamente Siavush Randjbar Daemi, ricercatore presso l’Università di Londra e giornalista, nel suo libro
L’eredità dell’imam. La strategia rivoluzionaria degli sciiti da Mussa Sadr a Ahmadinejad, in uscita per Sperling & Kupfer.
Ma perché questa continua politica di aggressioni verbali e minacce? «Lo scopo è quello di aumentare il patriottismo della popolazione. Bisogna tenere conto del fatto che in Iran si respira un clima preelettorale: si andrà a votare nella primavera di quest’anno, probabilmente».
Attualmente esiste un’opposizione, o almeno un dissenso? «Lo strumento attraverso cui la popolazione esprime il proprio dissenso è il non voto. Quindi Ahmadinejad è impegnato ad assicurarsi il sostegno di quella parte della popolazione che invece parteciperà: quel terzo o forse più di fedelissimi della Repubblica islamica attestati su posizioni radicali e di sfida all’Occidente. Si tratta soprattutto di una consistente parte della popolazione rurale che non ha avuto contatti con l’Occidente ed è stata educata con una certa xenofobia».
C’è in Iran una società civile articolata, organizzata e libera di esprimersi? «A differenza di altri Paesi del Medio Oriente, l’Iran ha una società civile che vanta una lunga storia e che, nell’ultimo decennio, ha potuto usufruire di strumenti tecnologici con cui controbattere al controllo rigido dello Stato sui media. La radio e la televisione dell’Iran, già prima della rivoluzione islamica, sono sempre stati sotto il controllo ferreo dello Stato e, dopo un periodo di relativa libertà, ora anche i giornalisti della stampa riformista devono agire con estrema cautela. Ma in Internet, per esempio, sono molto importanti i blog di alcuni giornalisti indipendenti, che pubblicano vere e proprie inchieste. L’anno scorso c’è stato un caso di lapidazione in un piccolo villaggio del centro del paese, e una giornalista si è recata sul posto, ha scattato foto e le ha pubblicate sul blog, arrivando dove nessun giornale aveva potuto o voluto arrivare» .
Però questa società civile non vota. «È spaccata al proprio interno, ma comunque non penso che sarà la società civile a determinare il risultato elettorale. C’è un sentimento generale di apatia che ha invaso le classi medie, che non si sentono più rappresentate » . Ma il nucleare la gente lo vuole? Ne parla? « Direi di no. La gente è alle prese con una congiuntura economica piuttosto negativa; si preoccupa di arrivare a fine mese e non si appassiona ad altri problemi. Generalmente, comunque, il nucleare viene visto come via d’uscita ad un problema molto serio: la carenza di energia elettrica, che ha costretto il governo a tagliare la fornitura a interi quartieri della capitale – uffici pubblici compresi – in maniera periodica e sistematica».
Il 70% della popolazione è costituita da giovani. Come vivono?«È una vita piena di incertezze. I giovani delle classi medie vengono incanalati presto a creare i presupposti per l’emigrazione. Dall’adolescenza si studia per essere ammessi in una prestigiosa università, conseguire una laurea e partire. Nello stesso tempo, molti entrano precocemente in contatto con la cultura occidentale, attraverso internet o le parabole satellitari, molto diffuse anche se in teoria proibite. Si creano così innesti sorprendenti: per esempio, è molto diffuso il rap, sia pure cantato in persiano».
Tutto questo vuol dire anche laicizzazione? «In un certo senso sì, ma senza sbocchi politici. Non porta cioè all’adozione di una visione politica laica, piuttosto si traduce in apatia. Un ragazzo, recentemente, mi ha raccontato che con i suoi amici si è dato una regola: chi vota è fuori dal gruppo. Da parte loro, le autorità hanno deciso di lasciar fare. Ogni tanto sequestrano qualche antenna satellitare oppure la polizia morale ferma qualche ragazza che indossa un foulard troppo vivace o è troppo truccata. Sono misure che hanno lo scopo di far tacere i gruppi più radicali, ma sono abbastanza occasionali. A Teheran le ragazze continuano a vestire all’occidentale o quasi, ma invece di protestare per il chador si segnalano via sms le piazze in cui è appostata la polizia morale e la evitano».
Insomma, si cerca la libertà nel privato, senza farne una questione politica. «Sì. Poi succede che nella Teheran bene si fanno festini in cui si abusa seriamente di droga e alcol. Un’espressione di rigetto dello status quo è data anche dalla tossicodipendenza. Si stima che l’Iran abbia 3- 4 milioni di tossicodipendenti, anche perché dai confini con l’Afghanistan e con il Pakistan la droga entra in grandi quantità. Recentemente lo Stato ha distribuito gratuitamente siringhe ' sicure' per bloccare l’enorme diffusione dell’Aids, ma finora non è riuscito a dare una risposta al disagio di cui la grande diffusione della droga è espressione».