La voce di Charles Baudelaire continuo a vederla come galleria del vento, come banco di prova per la poesia contemporanea. Lo è, senza volermi dilungare, in quanto banco di prova delle visioni o meglio della mancanza di visioni dell’epoca contemporanea. Aveva ragione in questo senso un lettore come Arthur Miller, quando ricordava l’estraneità voluta ed esibita di Baudelaire ad un tempo che sarebbe stato il mondo della borghesia, con la sua «morale da cassieri», «goloso, affamato di cose e infatuato di se stesso». E si rammenti quanto Baudelaire accusava in Heine, esponente della «scuola pagana» e di una «letteratura fradicia di materialismo sentimentalista», sostenendo contro ogni neo-paganesimo estetizzante che «non è lontano un tempo in cui si comprenderà che qualsiasi letteratura che si rifiuti di procedere fraternamente tra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida». In questo essere banco di prova dell’epoca che sopraggiungeva, dunque, Baudelaire lo è pure della poesia a noi contemporanea, ben al di là delle cosiddette due linee che la critica da tempo vede provenire dal suo fuoco centrale: la linea dei poeti "artisti" che in Mallarmé trova il suo acme, e in parte in Valéry, e quella dei "veggenti" che ha in Rimbaud il suo paradigma.Nei
Fleurs stanno tutti i primi movimenti dei rischi e delle conquiste della poesia successiva. L’ansia e la necessità di autogiustificarsi, come voce altra nell’agone pubblico; la forza di resistenza delle parole alle idee, secondo un’espressione che sarà di Mallarmé; la capacità straordinaria di rompere ogni distinzione tra il classico e l’inedito e non già per banale parifica bensì per tensione unitaria alla ricerca del "nuovo" che nel loro incontro può nascere; la prodigiosa orchestrazione di motivi conosciuti e di azzardi; e infine c’è pure il rischio che il ragazzo che visitò l’Inferno con occhi di vento, Arthur Rimbaud, ebbe il coraggio di notare nel suo "dio", ovvero la vita vissuta in un milieu troppo "artiste". In Baudelaire, definitivamente, si fissa uno dei tratti del poeta autentico: d’esser voce di contraddizione rispetto all’epoca. Anche nel momento in cui esaurisce e compie le risorse formali del suo tempo, divenendo quel che chiamiamo un "classico", il poeta si pone di traverso rispetto al pensiero dominante. Allo stesso modo, W.H. Auden ricorda che più generale «ogni poeta è insieme esponente e critico della propria cultura». Tale scandalo può mostrarsi in molti e diversi modi – e certamente oggi in modo diverso dalla metà dell’800. Leggendo i
Fleurs certi "maledettismi" novecenteschi o replicati in altri ambiti – come la canzone – appaiono grotteschi e ingenui quasi da ispirare tenerezza invece che scandalo. Ma resta intatta e bruciante la verità: in un poeta autentico l’epoca trova una forza scandalosa. Montale, grande lettore dei
Fleurs, mentre costata che nel nostro Ottocento manca una figura analoga di poeta centrale, assiale, imperioso nella sua forza quasi normativa (Leopardi e Foscolo, nota, lasciano scoperta buona parte del secolo) sembra rivendicare tra le righe una sua specie di "funzione Baudelaire". Come l’autore francese ebbe la forza di attraversare Hugo per portare la poesia in un’altra direzione, potremmo leggere Montale come uno che ha traversato D’Annunzio e ha operato una deviazione analoga. Lo dichiara il famoso inizio della terza poesia che compose, «I limoni», con la sua figura dantesca e l’abiura del lessico aulico. Del resto, l’autore degli
Ossi, di sé dice chiaramente di muoversi in un solco "Brownig-Baudelaire" che non è di poesia realistica, né simbolista, ma, precisa Montale, una specie di poesia metafisica. E ora, da qualche tempo, la poesia italiana sta attraversando il grande ligure. Ma questa è un’altra faccenda, che ci porterebbe a rintracciare l’esistenza di una poesia contemporanea che non accetta di ridursi alle categorie costruite per opposizioni dalle letture novecentesche. Proprio a questa tornata, la voce di Baudelaire viene a porsi ancora accanto al lavoro dei poeti nuovi, o come guerriero che vediamo sull’altura, come sentinella sui tentativi che rifiutano la irrilevanza della poesia nella ricerca di una coscienza contemporanea veramente critica e accesa. I migliori poeti italiani del ’900 – chi traducendo, chi leggendo con impegno – hanno toccato Baudelaire. Tra gli altri, si vedano le pagine laboriose e profonde che gli dedica Mario Luzi nella prefazione all’antologia su
L’idea simbolista, dove il maggior poeta del secondo novecento italiano – presupponendo il lato germanico della riflessione romantica che genera il simbolismo – vede nell’autore dei
Fleurs colui che ha introdotto una «drammatizzazione» nell’idea romantica tesa alla «ricostituzione dell’unità del mondo». Dipende da Baudelaire e dai suoi prosecutori, dice Luzi, se «fare poesia nel mondo moderno ha acquistato un significato insieme elementare e decisivo, al di qua del quale ogni altra accezione e pratica della poesia sembra oziosa». Giorgio Caproni, dal canto suo, ingaggia con Baudelaire un suo personale e lungo corpo-a-corpo. E come è stato notato recentemente da Luca Pietromarchi introduttore della riproposta della sua traduzione dei
Fleurs, quel corpo-a-corpo durato fin dagli anni ’60, ebbe non poca influenza nella nascita delle opere del Caproni estremo, cacciatore di frodo ai limiti dell’
Inconnu. Ma si tratta di casi splendidi e isolati. Troppe volte, infatti, scartando da Baudelaire, dalle sue messe in discussione, dalla sua indicazione circa il significato primordiale dell’immaginazione, dal suo freddo incendio dei luoghi comuni, la poesia contemporanea si raggomitola su un’illusione, sui propri ghirigori, evita di approfondire lo "scandalo" della propria esistenza rispetto ad ogni inerte esperienza del mondo e ad ogni comodo moralismo. Lontana da Baudelaire, la poesia si dà per scontata e finisce per offrire cose scontate. Eppure non sono molti i cosiddetti poeti italiani contemporanei (gli "odiernissimi" li avrebbe chiamati Carducci) che abbiano di Baudelaire una esperienza non puramente letteraria, ovvero nulla. Sembra quasi che i
Fleurs abbiano dovuto subire un esilio, e il peggiore degli esilii, che è quello nella presunzione del "già conosciuto". L’etichetta di "maledetto" ha funzionato quasi perfettamente come sudario di censura. Ha posto in evidenza quel che era comodo vedere, quel che non era davvero scandaloso. E non troverete Baudelaire nei grandi canoni presupposti dai critici maggiori o dai lettori più influenti. Non lo trovate in Harold Bloom, non lo trovate in Italo Calvino, mentre abita dalle parti di Pavese e del suo novecentesco
spleen. Non lo trovate nelle mappe che hanno presunto di leggere la poesia e la letteratura seguendo le coordinate della gnosi o dell’ideologia, o delle loro recenti rielaborazioni. Eppure, penetrando persino dalle griglie in cui hanno tentato di ridurla, la sua poesia ancora parla. E questo libro «di una bellezza sinistra e fredda», fatto con «furore e pazienza» continua a dare i suoi lampi e bagliori. E a portare la sua verità. In altra occasione parlavo del poeta come colui che ha capito e patito il dualismo che segna in fronte l’epoca che ai suoi tempi iniziava e che in pieno viviamo. Ora quel dualismo tra cielo e terra, tra carne e spirito e tra bellezza e perdita pare ancora più accentuato e disperante per tanti. Ad essi Baudelaire è lucido compagno.