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Calcio. Da Archimede al microchip, quanta scienza e geometria nel pallone

Antonio Giuliano venerdì 21 giugno 2024

La domanda è rivolta ai tifosi, certo, ma anche a tutti quelli che almeno una volta nella vita l’hanno preso a calci: avete mai guardato veramente un pallone? Non siate precipitosi, la risposta è meno scontata di quel che potrebbe sembrare. Soprattutto dopo la lettura coinvolgente di un saggio curioso e sorprendente: L’incredibile storia del pallone da calcio (Sonda, pagine 144, euro 18). A firmarlo è addirittura un matematico, il francese Étienne Ghys, segretario generale dell’Accademia delle scienze di Parigi. Eh già perché se prendete tra le mani il più classico dei palloni e vi mettete a contare i pezzi bianchi e neri e quanti lati ognuno di essi ha, vi accorgerete presto che a scendere prepotentemente in campo è la geometria. All’origine dei palloni moderni ci sono solidi e poligoni dimostra Ghys in un viaggio certosino ma spassoso attraverso le sfere più celebri usate nei tornei internazionali. Quello che ha avuto più successo e che ancora resiste nell’immaginario popolare è il pallone dei Mondiali del 1970 in Messico. Si chiamava “ Telstar”, stella della Tv, visto che in quel periodo le partite della Coppa del Mondo furono trasmesse per la prima volta su tutti i canali televisivi. Telstar fu il primo pallone a 32 pezzi, di cui venti bianchi e dodici neri, ma alla base della sua progettazione non vi è altro che l’icosaedro troncato, uno dei solidi platonici studiato anche da Leonardo Da Vinci. Poi però dal Mondiale 2006 comparve una nuova sfera ricavata da un originario ottaedro. E da lì in poi per ogni rassegna iridata fu coniato un pallone ad hoc. In Brasile nel 2014 a ispirarlo perfino un cubo. Non una novità visto che prima del 1970 tutti i palloni erano disegnati da cubi di cuoio con le sei facce tagliate in due o tre rettangoli. In Qatar 2022 spiccavano sulla sfera otto pezzi triangolari e dodici pezzi a forma di aquilone ma alla base c’era l’icosidodecaedro, uno dei solidi di Archimede.

Se fa un certo effetto apprendere che dietro una palla che rotola ci sono fior di studi, bisogna anche dire che non sempre i risultati sono stati apprezzati. Prendete uno dei palloni più contestati, quello di Sudafrica 2010. A dispetto del nome, Jabulani, che significa «essere felici», i giocatori ne lamentavano le traiettorie imprevedibili. E il danese Daniel Agger sbottò: «Ci fa sembrare dei marinai ubriachi». Qui allora entra a gamba tesa anche la fisica. Ghys risale indietro al tempo in cui venivano studiate sì delle palle, ma quelle di cannone. Come nel trattato di balistica del XVI secolo di Niccolò Fontana detto Tartaglia. Ma sono noti anche gli esperimenti di Galileo che faceva cadere delle palle dall’alto della Torre di Pisa (secondo gli storici più probabilmente a Padova) e poi Gustave Eiffel all’inizio del XX secolo in un laboratorio ai piedi della sua Torre. Perché non sembri però solo una questione teorica, l’autore richiama le punizioni iperboliche del brasiliano Roberto Carlos. Ben sapendo però che lo spin (rotazione) era qualcosa di già noto nel XVIII secolo come effetto “Venturi” dal nome del fisico italiano Giovanni Battista Venturi. Dagli stracci al cuoio, dalla plastica alla stoffa, ne abbiamo viste di tutti i colori, ma l’ultima evoluzione tecnologica è in atto agli Europei in corso in Germania. È un pallone intelligente quello plasmato dall’Adidas e chiamato Fussballliebe «amore per il calcio».

Già agli ultimi Mondiali dentro la sfera era stato inserito un microchip, adesso quello della rassegna continentale ha un sensore capace di processare 500 immagini al secondo. Rileva il momento preciso dell’impatto con il corpo del giocatore e la parte del corpo che ha colpito la palla. Un aiuto per gli arbitri soprattutto per i tocchi di mano e il fuorigioco. Per ora microchip e intelligenza artificiale non hanno scalfito l’essenza di uno strumento di gioco che ha fatto gioire generazioni. Quella magia che lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano descriveva così: «Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: “Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?”. “Non glielo spiegherei” rispose. “Gli darei un pallone per farlo giocare”». Fa riflettere ora che della partita facciano parte anche pionieri illustri e precursori insospettabili che erano alla ricerca di simmetrie dell’universo ma già allora vedevano la sfera come il simbolo della perfezione. Un dono del cielo, come spiegava Copernico: «Prima di tutto, dobbiamo notare che il mondo è sferico, sia perché questa forma è la più perfetta di tutte, (…) sia perché tutte le cose tendono a configurarsi in questo modo, come si può vedere nelle gocce d’acqua e negli altri corpi liquidi. Ecco perché nessuno dubiterà che questa forma appartiene ai corpi divini».