Alla vigilia del viaggio di papa Francesco nell’isola caraibica ecco ripubblicato da Francesco Mondadori, per "I libri di Sant’Egidio", un testo di quasi vent’anni fa firmato da Jorge Mario Bergoglio, nel quale sono ben evidenziate le ragioni di una scommessa che oggi sta portando i suoi frutti. Si intitola Uno sguardo su Cuba. L’inizio del dialogo. Giovanni Paolo II e Fidel Castro e ha l’introduzione dello storico Andrea Riccardi (nella foto) della quale pubblichiamo un estratto. Un testo per capire le premesse di un dialogo che ha cambiato la storia. Gennaio 1998: Giovanni Paolo II va a Cuba e incontra Fidel Castro. È l’inizio di un itinerario, il cui compimento è la visita di Francesco a L’Avana nei prossimi giorni, dopo l’annuncio della fine dell’embargo statunitense, grazie anche alla discreta mediazione compiuta dal papa. Nel 1998 l’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, pubblicò questo libro dopo una approfondita riflessione sul viaggio di Wojtyla a Cuba. Uno sguardo su Cuba che si pone alle radici della svolta di oggi.Cuba è una realtà molto particolare per l’America Latina. Da un lato si identifica fortemente con la vicenda culturale e storica del continente ma, d’altra parte, ha una sua identità peculiare legata alla rivoluzione castrista del 1959 e al regime socialista da essa inaugurato e tutt’ora in vigore. Cuba è simile al mondo latino-americano, di cui è parte integrante, eppure è molto diversa. Non si tratta di un sistema politico-sociale imposto con l’intervento dell’Unione Sovietica, come nell’Est europeo. La rivoluzione cubana è autoctona, ma è divenuta un modello per tante rivoluzioni (spesso fallite) nel continente e altrove. È il regime socialista di più lunga durata in America Latina, ancora oggi in vita dopo il ritiro di Fidel Castro. Cuba socialista e rivoluzionaria ha rappresentato un mito e un ideale per non pochi latino-americani (specie delle giovani generazioni), ma anche un fantasma inquietante per governi e poteri stabiliti. Lo è stato per i presidenti americani, prima di Barack Obama. Eppure, anche tra chi non condivideva il sistema socialista (soprattutto latino-americani), Cuba ha raccolto simpatia per la sua resistenza agli Stati Uniti che dal 1962 hanno imposto l’embargo all’isola (gli Stati Uniti assorbivano fino a allora il 74% delle esportazioni cubane). Insomma Cuba, soprattutto in America Latina, è più rilevante delle sue dimensioni economiche o demografiche. Bergoglio ne è consapevole e sa come Cuba sia un test per i rapporti tra i Paesi latino-americani e gli Stati Uniti. Papa Francesco sembra abbia detto al presidente americano Obama, in visita in Vaticano: «Se vuole la simpatia dei latinoamericani, risolva i problemi con Cuba». Così si è arrivati allo storico accordo del 14 dicembre 2014: la fine del blocco durato più di mezzo secolo. Raul Castro, in una pubblica riunione di Paesi latino-americani, ha riconosciuto che non si sarebbe arrivati all’incontro con gli Usa, senza la decisione di Obama, che si è diversificato dai suoi predecessori, «perché di umile origine». Papa Francesco ha avuto la funzione di mediatore discreto tra i due governi. Lui stesso, nel 1998, provocando una discussione sulla visita di Giovanni Paolo II nell’isola e pubblicando questo volume, aveva manifestato la convinzione di come la vicenda cubana fosse focale per i rapporti interamericani e nel mondo. E il passo di papa Wojtyla, quasi vent’anni fa, era il primo nel senso del disgelo. Il cardinale argentino, salito sulla cattedra di Pietro nel 2013, ha idee chiare su Cuba, sulla necessità del dialogo tra Chiesa e regime, e tra Chiesa e popolo, sull’assurdità del blocco realizzato dalle sanzioni. Da molti anni, è convinto della necessità di por fine all’isolamento dell’isola. Ai danni economici e politici di tale isolamento, aveva rimediato la collaborazione con il blocco socialista e con l’Unione Sovietica; ma, dopo l’89 e la fine del comunismo dell’Est europeo, era cominciata una stagione difficile per l’economia cubana. L’isolamento, a suo modo, aveva radicalizzato tante scelte politiche del regime. D’altra parte, per chi non accettava di vivere in una situazione difficile da un punto di vista economico e particolare da un punto di vista politico, c’era la via dell’emigrazione. Il viaggio di Giovanni Paolo II aveva voluto forzare l’isolamento di Cuba attraverso il dialogo: «È di estrema importanza l’apporto della visita di Giovanni Paolo II – si legge – perché in certo modo tale avvenimento implica che si tengano aperti i canali di comunicazione». È un punto decisivo della riflessione del gruppo di lavoro guidato da Bergoglio, che coglie il cuore della visita papale. Infatti l’espressione chiave del messaggio wojtyliano durante la visita è: «Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba!». La stampa occidentale aveva interpretato questo slogan e lo stesso viaggio del papa come una premessa alla fine del comunismo nell’isola sul modello della transizione polacca. Insomma la visita a Cuba non era che la riedizione dei viaggi papali in Polonia, tesi a stimolare lo spirito d’indipendenza della popolazione polacca. È quanto, ad esempio, temevano i cinesi, quando si parlava di un eventuale visita di Giovanni Paolo II in Cina, cioè il carattere 'eversivo' dell’impatto con la popolazione. Effettivamente erano timori esagerati. Infatti, il papa era troppo accorto per credere che la storia si ripetesse in questo modo. Lo stesso Fidel Castro conosceva la solidità del suo regime e le fragilità del suo Paese: non nutriva timori nei confronti del papa. Giovanni Paolo II voleva aiutare l’isola a costruire un rapporto nuovo col mondo e con gli Stati Uniti; far crescere la società cubana e aiutare la Chiesa cattolica. Senza mezze misure, condannò l’embargo: «Il popolo cubano non può vedersi privato dei vincoli con gli altri popoli». Non solo il governo, ma anche il popolo. Le osservazioni di Bergoglio su Cuba mostrano il grande interesse del mondo cattolico degli anni Novanta verso l’isola: si può dire che ci sia la ricerca di una via 'cattolica' o dialogante per uscire dal blocco internazionale che si è consolidato, indicata con il viaggio di Wojtyla. Del resto, nonostante alcuni momenti difficili tra il governo di Castro e la Santa Sede, non si sono mai interrotte le relazioni diplomatiche. Vari nunzi a Cuba, come monsignor Cesare Zacchi, hanno avuto un ruolo nell’appianare le difficoltà. Giovanni XXIII, all’epoca della rivoluzione castrista, ha vegliato per evitare che si ripetessero le spaccature dell’Est europeo. La rivoluzione cubana è avvenuta senza che fosse versato il sangue di nessun prete. Il clima tra Chiesa e Stato non è stato buono, ma niente di paragonabile ai Paesi dell’Est europeo. Limitazioni ci sono state per la Chiesa, per lo più ridotta alla vita cultuale. Tuttavia il regime non ha controllato le nomine o il clero. La figura di monsignor Carlos Manuel de Céspedes, discendente di una storica famiglia cubana, a lungo segretario della Conferenza episcopale, è stato spesso un tramite con il mondo del governo che lo rispettava. Il momento più difficile era stato quando il governo espulse centotrentadue preti (non cubani) nel 1961, dopo lo sbarco americano alla baia dei Porci. Ma, al momento della visita del papa, nel 1998, sembravano storie ormai lontane. Papa Francesco, da latinoamericano, ha realizzato quello che tanti avevano sognato prima di lui, anche grazie all’interlocuzione con il presidente Obama. Ha mostrato la forza del dialogo. Leggere queste pagine di riflessione sul viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998 aiuta a capire meglio come Jorge Bergoglio guardasse da tempo con grande attenzione a Cuba, convinto che la Chiesa dovesse avere un ruolo in questo quadro. Oggi queste visioni divengono il programma e la realtà del suo pontificato.