Religioni. I cristiani in Medio Oriente sono la nuova «resistenza»
Una foto dal'archivio dell'École biblique et archéologique française di Gerusalemme (EBAF)
Pubblichiamo un'anticipazione dal volume di Chiara Zappa Anime fiere. Reistenza e riscatto delle minoranze in Medio Oriente (Edizioni Terra Santa).
Perseguitati, discriminati, vittime. Sui media e nel discorso pubblico, i popoli minoritari del Medio Oriente vengono associati costantemente a categorie che sono diventate ormai quasi delle etichette. Si racconta di comunità ostaggio della violenza fondamentalista, o disconosciute nella propria identità da regimi illiberali, spesso minacciate nella loro stessa esistenza. Tutte tragedie che, purtroppo, non possono essere negate. Ma in questo sguardo manca qualcosa. Qualcosa di molto importante. Perché le numerose e sfaccettate minoranze che abitano il Levante arabo e la zona mediorientale sono, prima di tutto, “resistenti”.
Comunità eccezionali e preziose, che nel corso dei secoli – persino dei millenni – hanno saputo conservare intatta la propria identità in contesti spesso ostili. Hanno tenuto in vita culture ancestrali e tradizioni che sono eredità vivente di un incredibile passato plurale a rischio di estinzione. Qualche volta nel nascondimento, altre combattendo a viso aperto, non solo hanno difeso usanze e anche religioni considerate blasfeme dal potere di turno, ma hanno rivendicato il proprio insostituibile contributo alla prosperità delle loro società. E continuano a farlo.
Dai copti agli aleviti, dai curdi ai maroniti, sono questi popoli indomiti, più di tutti, a tenere alta oggi la bandiera di chi è convinto che la convivenza tra diversi, tutti con gli stessi diritti e doveri di uguali cittadini, sia l’unico futuro possibile per un Medio Oriente paurosamente avviato verso dinamiche di disgregazione. È per questo che le loro storie, infarcite di suggestive leggende, di peripezie epiche e troppo spesso di sangue, ci riguardano tutti.
Incontrando molte di queste comunità nel corso dei miei viaggi, ho avuto numerose occasioni per lasciarmi ammaliare dal loro spirito, ma anche per rendermi conto del fastidio con cui esse guardano alla definizione di “minoranze” che viene loro appiccicata. In effetti, se dal punto di vista numerico il termine è nella maggior parte dei casi inoppugnabile, ho dovuto concordare sul fatto che ridurre al loro peso demografico popoli portatori di culture e sistemi sociali unici, oltre che attori strategici della storia recente delle proprie terre, costituisce un grave errore di valutazione. «L’idea di “minoranza” ci sminuisce, nega il nostro ruolo di cittadini a pieno titolo», mi hanno ripetuto tanti dei testimoni che ho conosciuto e intervistato. Non minoranze perseguitate, dunque, ma popoli resistenti.
Anime fiere. Alcune di esse hanno origini etniche condivise, ma nei secoli hanno costruito un’identità differente, visto che l’auto-percezione collettiva può essere legata all’etnia ma altrettanto spesso può avere molto più a che fare con la religione o la cultura. Per capirci, una comunità può sentirsi principalmente alevita – categoria che fa riferimento alla fede – a prescindere dal fatto che i propri membri possano essere etnicamente turchi o curdi. Lo stesso vale per gli yazidi, la cui identità di gruppo è basata su una religione tradizionale condivisa, più che sull’etnia. Quando parlo invece del popolo curdo, intendo riferirmi all’aspetto culturale di questa nazione virtuale, che unisce non solo cittadinanze ma anche fedi diverse.
Può capitare al contrario che tradizioni e credo siano entrambi elementi che definiscono un gruppo, come avviene ad esempio per i copti d’Egitto. Altre volte ancora, l’effettiva origine etnica di una comunità è storicamente incerta, ma la comunità stessa la rintraccia come elemento per auto-definirsi. O, persino, ricostruisce discendenze ben poco provate per identificare una propria specificità o marcare una differenza rispetto al contesto. Riferirsi ai diversi popoli attraverso le categorie – di volta in volta etniche, religiose o culturali – che loro stessi hanno deciso di utilizzare per auto-definire la propria identità – è una scelta pragmatica, ma anche di un segno di rispetto nella convinzione che, fatta salva la verità storica di alcuni fatti, dare atto ad ogni gruppo umano della propria visione di sé costituisca il primo passo per la comprensione reciproca. Una comprensione vitale in un mondo complesso – in particolare nel tormentato Medio Oriente –, che a dispetto della globalizzazione come di reiterati tentativi di pulizia etnica, uniformazione, assimilazione, non ha certo visto trionfare l’omogeneità. Grazie a Dio.