Storie di calcio. Mondonico: «La Cremonese in Serie B? Una vera festa di famiglia»
«È la promozione che mi era sfuggita quel giugno di nove anni fa, sfumata all’ultimo secondo di una partita incredibile con un gol regolare annullato nel recupero. Una decisione sbagliata a volte può costare a una squadra e a un’intera città interminabili anni di purgatorio al posto del paradiso calcistico. Per questo sono ancora più felice, anche se sulla panchina della Cremonese, il mio primo amore, non ci sono io». Parole grate, e in chiaroscuro, quelle del neosettantenne Emiliano Mondonico che ha ancora negli occhi quell’assolato pomeriggio del 2008, con la vittima sacrificale Cittadella diventata carnefice per colpa della sciagurata bandierina alzata del guardalinee De Pinto, e soprattutto l’alluvionale pomeriggio dello Zini di un mese fa quando per 94 minuti da fibrillazione è andato in scena l’ennesimo psicodramma grigiorosso, ma stavolta con esito fausto. Così, per una volta, le nuvole nere intrise di pioggia hanno scacciato il sole più accecante facendo tornare la Cremonese in B dopo undici anni di asfissia nelle sabbie mobili della terza serie. Per il popolo grigiorosso e per il suo mecenate Giovanni Arvedi i violini sono così usciti dal Museo per tornare a suonare sotto il Torrazzo, regalando al cremonese re dell’acciaio un sorriso che nemmeno il mancato approdo all’Ilva di Taranto riuscirà a cancellare. “L’era Arvedi” pomposamente annunciata dieci anni fa sul sito della Cremonese per non essere da meno dello storico patron Domenico Luzzara (recordman con i suoi 35 anni di presidenza) può finalmente prendere il largo e salpare.
Mondonico, il cavalier Arvedi come il presidentissimo Luzzara?
«Personalità a parte, il loro essere come dei papà è un po’ simile. Per la Cremonese e la città è una gran fortuna. È merce rara avere un patron che sia più un padre di famiglia che un proprietario, in un mondo del calcio in cui le maggioranze dei pacchetti azionari c’entrano sempre meno col territorio e con la gente. Ma poi ad accomunare Arvedi e Luzzara c’è anche un curioso inizio di carriera calcistica».
E quale sarebbe?
«Quando dieci anni arrivò Arvedi, della Cremonese non era rimasto più niente, dal materiale sportivo ai rubinetti delle docce all’erba dello Zini. Era l’immagine della desolazione e della fine. La vecchia proprietà aveva portato via tutto. Ci siamo trovati di fronte al nulla, anche come parco giocatori e come settore giovanile, che era sempre stato il fiore all’occhiello della società. Arvedi però ha avuto la volontà e la forza di rimettere in piedi tutto quanto».
Affidandosi, come fece Luzzara, anche alle vecchie glorie: Mondonico in panchina ed Erminio Favalli direttore sportivo.
«La società è sempre stata attenta alla cremonesità del suo staff e anche, dove possibile, dei giocatori. Ma c’è un altro particolare. Grande finanziatore dello sport cremonese e della cultura (con il sontuoso Museo del Violino, ndr), Arvedi di calcio non ne voleva proprio sapere finché, di fronte al rischio di uno sfascio totale, facendo leva sul suo amore per la città ha messo una mano sul cuore e una al portafoglio. Lo stesso fece Luzzara, nel lontano 1966. Prese la Cremonese perché con la sua ditta aveva realizzato l’impianto di illuminazione, ma non era stato pagato. Io ci giocavo e ricordo che venne nello spogliatoio dicendo che aveva preso la “Cremo” perché suo figlio Attilio tifava per me ed era mio amico. Poi un tragico giorno, era il 1970, Attilio morì in incidente d’auto. Io allora giocavo nel Torino, sarei tornato a Cremona da giocatore due anni dopo, quando esordì anche Antonio Cabrini in grigiorosso. Ma da quel momento Luzzara fu per me come un padre e io per lui come un figlio».
Fino a diventare il fautore insieme a Vialli del ritorno in serie A dopo mezzo secolo.
«Era il 1983 quando a metà campionato il direttore sportivo se ne andò. Avevamo bisogno di uno di famiglia che avesse a cuore la “Cremo”. Così suggerii a Luzzara di far tornare Favalli da Palermo dove, appese le scarpe al chiodo, da qualche anno era diventato dirigente factotum. Erminio tornò nella sua Cremona e facemmo un super campionato. Io ero diventato allenatore l’anno prima subentrando, da responsabile del settore giovanile, a Vincenzi e salvando la squadra dalla retrocessione in Serie C. Era il 1984, l’anno del dominio nel campionato cadetto della “lega lombarda” Atalanta, Como e Cremonese, quando centrammo il ritorno in A dopo 54 anni, dal primo campionato italiano a girone unico nel lontano 1929».
Passo lento, pazienza contadina da Bassa padana. Come ora, dopo 11 anni di calvario: compresa l’onta beffarda del calcioscommesse che portò Arvedi a rassegnare le dimissioni da presidente nel 2010.
«Una prova di grande orgoglio, onestà e signorilità. La Cremonese per prima aveva avuto il coraggio di denunciare e poi, per paradosso, aveva persino dovuto pagare il conto, con una penalizzazione di 9 punti. Anche in quell’occasione emerse la qualità morale di una piazza calcistica esemplare, tifoseria compresa».
Qualcuno in quell’occasione parlò però di ex isola felice del calcio.
«Invece lo è ancora, perché nel Dna della Cremonese c’è la caratteristica di essere una grande famiglia. Per questo ha sempre suscitato simpatia. Merito di Luzzara, soprattutto. Il presidente più benvoluto del calcio italiano. Ricordo che quando retrocedemmo in serie B nell’85 organizzò una grande festa. Lui di calcio non sapeva granché, ma in simpatia era un maestro. E soprattutto sapeva scegliere le persone. Come adesso sta facendo Arvedi, che del mondo del calcio sa molto di più di quando ne è entrato a far parte. Ha capito soprattutto che una società di calcio non è un’azienda come tutte le altre dove di solito vince e guadagna chi più spende e investe. Nel calcio ci sono tante altre variabili. Ora la palla passa al mio amico Tesser. Potrebbe fare a Cremona quello che fece sei anni fa a Novara».
Anche Cremona potrebbe tentare il doppio salto, come ha appena fatto la Spal e forse il Benevento?
«Arvedi può davvero costruire una squadra per puntare al paradiso. E dopo aver recuperato quest’anno 10 punti all’Alessandria, Tesser ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per realizzare un sogno, oltre a grandissime qualità umane. Anche lui, come il presidente Arvedi, mi è stato molto vicino nella mia lunga partita contro il sarcoma. Questa è la mia squadra, questo è il mio mondo. Il calcio a cui ho dedicato la vita».