Fascismo. Credere, obbedire e fare sport
Mondiali del 1938 in Francia. Il saluto fascista dei giocatori italiani prima della finale vinta contro l'Ungheria 4-2
Un efficace riassetto dei quadri federali e del Coni, valorizzazione professionale ed istituzionale di tutte le figure coinvolte nell’impresa sportiva e selezione accurata degli atleti, nel segno dell’innovazione tecnica e metodologica. Sono alcuni dei tratti distintivi della politica sportiva del fascismo, al centro del libro “Gli atleti del Duce” (Mimesis, pp. 228, euro 22) di Enrico Landoni, professore associato di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi eCampus. Un volume che mette in risalto un modello organizzativo innovativo, destinato a suscitare l’interesse e addirittura l’ammirazione dei Paesi europei e degli Stati Uniti. E al di là dei pregiudizi ideologici contribuì in maniera determinante allo sviluppo dello sport italiano nel dopoguerra.
Piaccia o meno, con il passato bisogna fare i conti. È la storia, bellezza, e tu non ci puoi fare niente, viene da dire, adattando al contesto la celebre battuta di Humprey Bogart nel film L’ultima minaccia. Lo sport italiano del secondo dopoguerra nasce e si sviluppa sulle radici del fascismo e di quel modello tecnico-organizzativo che, al netto delle strumentalizzazioni e delle aberrazioni, tanta ammirazione destò nel mondo, specie in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il generale Sherrill, membro statunitense del Cio, chiese ed ottenne per l’Opera Nazionale Dopolavoro l’assegnazione della Coppa Olimpica 1934.
Bernarr McFadden, fondatore della rivista Physical Culturee, più in generale, del bodybuilding, nel 1931 ospitò a lungo nel suo quartier generale newyorkese 42 allievi dell’accademia dell’Onb, che furono peraltro ricevuti solennemente alla Casa Bianca. Il campionissimo Carnera, nel 1929, prima ancora di diventare «The Walking Mountain» e l’incontrastato dominatore della boxe mondiale, già furoreggiava in Gran Bretagna dove, nel ruolo di ambasciatore sportivo del regime, aveva molto legato con l’allora Principe di Galles e faceva charity, soprattutto all’Istituto dei Ciechi di Londra.
Lo stesso Giulio Onesti, peraltro, chiamato nel 1944 dal suo partito, il Psi, a liquidare quell’ingombrante retaggio del passato chiamato Coni, simbolo della perfetta sutura voluta da Mussolini tra sport e regime, si guardò bene, a ragione, dal farlo, sostenendo di non poter avallare la dispersione di un patrimonio di competenze ed esperienze indispensabili per la rinascita democratica del Paese, proprio attraverso lo sport. Tutto questo la dice lunga insomma sulla fama e sulla solidità di un modello, che ebbe in realtà bisogno di tempo per affermarsi. Il fascismo infatti, che salì al potere nel 1922, solo dopo il 1925 riuscì ed elaborare e ad attuare una propria autonoma politica di gestione e sviluppo dello sport, su cui riuscì contestualmente a mettere le mani.
A quest’impresa si dedicò inizialmente con passione e impegno il generale Francesco Saverio Grazioli che, alla guida di un’importante Commissione di Studio, riuscì a fornire al Pnf gli strumenti necessari alla svolta. Quella che fu attuata e che culminò, sotto Augusto Turati, nella nascita del Coni, mo- dello Federazione delle Federazioni Sportive, rimasto in vita di fatto fino alla riforma del 2002. Su queste basi assolutamente solide, al movimento sportivo italiano non restò che crescere e modernizzarsi, all’ombra del Littorio e sotto la regia di abilissimi organizzatori: dapprima Leandro Arpinati, il vero artefice dell’exploit olimpico azzurro a Los Angeles 1932, e quindi Achille Starace, tutt’altro che l’utile idiota alla corte del duce descritto dalla storiografia. A lui si devono infatti, tra le altre cose, il rafforzamento strutturale di tutti i quadri federali, con l’immissione in ruolo e la valorizzazione di uominichiave come Ottorino Barassi, Giorgio Vaccaro, Giovanni Mauro, Bruno Zauli, la valorizzazione del movimento femminile, che portò all’esplosione di Ondina Valla e Claudia Testoni, la promozione internazionale e soprattutto la spettacolarizzazione del fenomeno sportivo.
Ed è proprio su questo fronte che evidenti appaiono i nessi tra lo sport attuale e quello degli anni Trenta. Basti pensare alla scoperta, tutta ascrivibile a Starace, dell’importanza del ruolo svolto dai media, e, più in generale, dall’audio-visivo a sostegno della promozione e della valorizzazione dell’evento sportivo: dalle primissime radiocronache di Carosio, passando poi ai cine-giornali e ai filmati ad hoc del Luce, fino ad arrivare alla regia dedicata dei match-evento dello sport odierno. Per non parlare poi di tutti quei dettagli che attengono alla partecipazione e alla fruizione collettiva dello spettacolo sportivo, con particolare riferimento al cosiddetto fenomeno del tifo e alla genesi del campionismo, ovvero del culto pubblico, ufficiale e politico dei grandi fuoriclasse. Gli anni Venti fecero da grande incubatore di questo fenomeno, che iniziò in modo un po’ strisciante già con l’esaltazione di Ottavio Bottecchia, indimenticato vincitore del Tour de France, poi con la celebrazione del campionissimo Alfredo Binda, ed infine con il trionfo degli assi della velocità, Tazio Nuvolari e Achille Varzi.
Ma fu solo nel decennio successivo che il campionismo riuscì ad esprimere appieno tutto il proprio potenziale mediatico e spettacolare, segnando per sempre le sorti del circuito sportivo italiano e del calcio in particolare, le cui vedette, sull’onda di quest’enfasi collettiva, finirono infatti con l’assumere chiaramente un ruolo ed un profilo metasportivo. Divennero icone, stelle, simboli e modelli di un sistema, che non poteva più prescindere dalla loro centralità, sia nella vita pubblica, sia nell’immaginario collettivo. Di qui l’istituzione della Medaglia al Valore Atletico, a suggellare il rilievo anzitutto politico del grande sportivo, la genesi del fenomeno Carnera, primo pugile italiano a vincere il titolo nella categoria regina, il culto di Vittorio Pozzo, l’allenatore-simbolo della stagione aurea ’34-’38, culminata nei due trionfi mondiali e nel successo olimpico di Berlino 1936, e la nascita del mito Meazza, Il Balillanerazzurro, la cui sindrome del piede gelato, responsabile della sua lunga assenza dai campi di gioco, tenne il Paese col fiato sospeso, tra il 1939 e il 1940.