Il Papa che chiama al telefono è anche il Papa che risponde alle lettere. A mezzo stampa, quando a mezzo stampa gli vengono recapitate. Lo fa senza rinunciare al suo stile, che è di dolcezza e insieme di chiarezza. Magari incastonando in uno scritto che, di per sé, non ha connotazione ufficiale una limpida professio fidei . «La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore», si legge infatti nella lunga lettera – pubblicata ieri in prima pagina da «Repubblica» – che papa Francesco ha voluto inviare a Eugenio Scalfari. Un gesto per molti versi sorprendente, ma che nella sostanza ribadisce il carattere di ascolto, di apertura e di dialogo che è stato da subito caratteristico del pontificato di Bergoglio. In due occasioni, rispettivamente il 7 luglio e il 7 agosto, Scalfari era intervenuto su «Repubblica » sull’enciclica Lumen fidei. Un atteggiamento, il suo, più di curiosità intellettuale che di ricerca interiore: «Ho una cultura illuminista e non cerco Dio – dichiarava nel secondo intervento –. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinante della mente degli uomini». Nonostante tutto, e fatta salva una certa rudezza nei modi («Le risposte che i due Papi non danno» era il titolo dell’editoriale di luglio), Scalfari allineava una serie di domande, alle quali Francesco risponde puntualmente nella lettera di ieri, invocando – lui sì – l’importanza di «dialogare su di una realtà così importante come la fede». È questo, ricorda, il Papa, «uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII», obiettivo reso ancora più urgente oggi da due diverse circostanze. Di carattere culturale la prima (il «paradosso» per cui la luce della fede viene percepita come «buio della superstizione » dal mondo contemporaneo), più specificamente legata all’esperienza di fede la seconda (il dialogo non come «accessorio secondario » del credere, ma come sua «espressione intima e indispensabile»). Non è un ragionamento astratto, e il Papa lo ribadisce con una testimonianza personale: «La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù», afferma, aggiungendo che «senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù». Ed è proprio grazie a questo profondo radicamento interiore che il Papa, rivolgendosi direttamente a Scalfari, si dichiara a suo agio «nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme». Si parte da Gesù, dalla «concretezza e ruvidezza della sua vi- cenda» così come ci è restituita dal Vangelo di Marco. Francesco si sofferma sul termine greco exousia , che indica la specifica “autorità” di Cristo e che trova la sua conferma più alta nella morte sulla Croce. È il mistero dell’Incarnazione, da cui discende il carattere universale della fede. «La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione», avverte Francesco, in una prospettiva che comporta la «separazione tra la sfera religiosa e la sfera politica». Spiega: «Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini». Anche al popolo ebraico?, domandava Scalfari. Bergoglio richiama la sua amicizia con molti «fratelli ebrei» in Argentina, dopo di che si appella a san Paolo per confermare che «mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele ». Allo stesso modo, la fede degli ebrei è oggi il modello di un’attesa che accomuna tutti gli uomini. Un non credente può essere perdonato?, chiedeva ancora Scalfari. Certo, risponde il Papa, perché «la misericordia di Dio non ha limiti» e perché «il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Ancora più articolate le riflessioni su un altro degli interrogativi suscitati dal fondatore di «Repubblica»: è condannabile la convinzione che non esista una verità assoluta? Qui il Papa propone una distinzione terminologia. Se “assoluto” viene inteso nel suo valore etimologico di «slegato», «privo di ogni relazione», è corretto escludere che possa darsi, anche per il credente, una verità assoluta. Ma questo perché «la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!». Il che non comporta che la verità stessa possa essere considerata «variabile e soggettiva», bensì che «essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita». Quanto a un altro dubbio di Scalfari (quella per cui con l’estinzione dell’umanità verrebbe anche ad estinguersi il pensiero che l’umanità ha di Dio), Francesco ribadisce che Dio non è il frutto di un’attività immaginativa, ma «è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rap- porto con Lui – come un Padre di bontà e di misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero». Coerente fino in fondo con la discrezione che lo contraddistingue, il Papa si congeda definendo «tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa» la risposta alle domande rivoltegli da Scalfari. Il quale, a sua volta, confessa di aver trovato «scandalosamente affascinante» l’ampiezza dell’intervento di Francesco: «Forse perché la pecora smarrita merita maggiore attenzione e cura? », torna a interrogarsi. «Mi sembra che questo testo possa diventare, per certi versi, una sorta di manifesto del Cortile dei Gentili, per i contenuti, ma anche per il metodo del dialogo stesso», commenta nel corso della giornata il cardinale Gianfranco Ravasi, da tempo impegnato – nel suo ruolo di presidente del Pontificio Consiglio della Cultura – in un franco confronto fra credenti e non credenti. Non a caso, all’interno della lettera di Francesco, Ravasi suggerisce di isolare un’altra frase, semplice e magnifica al tempo stesso: « Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile». (
Il testo integrale della lettera)