Agorà

Pugilato. Arthur Cravan, il poeta del ring

Massimiliano Castellani venerdì 5 ottobre 2018

Arthur Cravan

I “critici” e gli storici contemporanei della nobile arte del pugilato (da tempo decaduta, almeno a livello mediatico) difficilmente in futuro potranno raccontare di un artista boxeur del calibro di Arthur Cravan. Un peso massimo, in ogni senso, della stazza di oltre cento chili ripartiti su due metri di uomo, il cui mistero, dall’inizio alla fine dei suoi giorni (la data della presunta morte è 18 ottobre 1918), è immenso, quanto la sua folle, affascinante e artistica esistenza durata appena 31 anni. Un enigma, a cominciare dalla carta d’identità, in cui amava definirsi «nipote di Oscar Wilde. Il poeta dai capelli più corti del mondo. Statura: due metri. Peso: centoventicinque chili (in realtà toccò al massimo i 104 kg). Il Critico brutale. Il Campione di Francia di boxe. Disertore in undici paesi». Nato Fabian Avenarius Lloyd, da famiglia di cortigiani reali, aveva ripudiato in fretta quel nome per ripiegare sul più poetico Arthur: in onore di Rimbaud, e Cravan, che stava per Cravans, il paesino di «tagliapietre» che aveva dato i natali alla sua amante, Alphonsine Bouchet, detta Renée. L’avventurosa storia di questo pezzo unico della boxe, l’attento lettore a bordo ring l’aveva appresa già qualche tempo fa con Arthur Cravan. Poeta e Pugile (Le Nubi) ma ora può appagare la sete di “mistero” con un volumetto gioiello, a cura di Edgardo Franzosini Arthur Cravan. Grande trampoliere smarrito (Adelphi, pagine 196, euro 13,00). Il più poetico dei pugilatori era nato a Losanna (il 22 maggio 1887), allora enclave inglese, e lì visse fino ai 18 anni. L’età, che poi diventerà quella del rimpianto: «Se a diciott’anni avessi saputo il latino oggi sarei imperatore». Fino ad allora assieme al fratello Otho, Cravan si era dedicato a una vita dissennata, da teppaglia, mostrando però i primi segnali di quel talento presuntuoso che gli faceva dire ad alta voce: «Cosa è più nefasto, il clima del Congo o il genio?».

Il primo a credere nella sua genialità fu il cugino Vyvyan Holland, pseudonimo di Vyvyan Wilde, il figlio del grande Oscar e di Costanza, sorella di Otho, il papà di Fabian, pardon, di Arthur Cravan. È un rompicapo, in primis anagrafico, tutto ciò che ruota attorno a questo eclettico e baldanzoso giovane dall’eleganza del dandy e l’autolesionismo dei clochard. Il suo amore per la poesia faceva a cazzotti con la riluttanza per i libri. Il suo odio verso gli oppositori dell’immenso Wilde lo esprimeva anche a colpi di pistola o sfidando in duelli dialettici surreali eminenze grigie come André Gide al quale, ospite in casa sua, sferrò subito un gancio provocatorio: «Preferisco di molto la boxe alla letteratura». A Parigi si fece riconoscere tra la bohème di Montmartre. Ma prima di fustigare, con le sue critiche salaci e dirette, la maggioranza dei pittori che esponevano al Salone degli Indipendenti, si diede all’arte pugilatoria, atleta del club di Fernand Cuny.

L’allenamento dopo le ore sudate trascorse al sacco proseguiva nei quartieri della Ville Lumiere per vendere, trascinando un carrettino da fruttivendolo, il suo gioiello letterario. L’ormai introvabile rivista Maintenantdi cui era editore, direttore, redattore e corrispondente, che aveva cominciato a pubblicare nell’aprile del 1912. Erano trascorsi dodici anni dalla morte di Oscar Wilde, una perdita di cui Cravan non si era mai dato pace, al punto da “resuscitarlo” in quel racconto onirico che è Oscar Wilde è vivo, in cui lo zio lo visita sotto le mentite spoglie di Sébastien Melmoth. Il suo match quotidiano era difendere la nobile stirpe wildiana. Avversari come Apollinaire andavano abbattuti con quella «penna leggera come un pugno» che vergava velenosa: «L’ebreo Apollinaire, con la pancia di rinoceronte e la testa da tapiro». Antisemitismo? No ars provocatoria di un Dorian Gray con i guantoni, un personaggio uscito dalla pagina dell’unico romanzo mai scritto da Wilde e alla continua ricerca di un autore, al di fuori di se stesso. Le luci della ribalta per lui si accesero sotto il riflettori del ring, su cui saliva con il nome di Fabian Avenarius Lloyd. E anche il titolo di campione di Francia dei pesi massimi conquistato nel 1910 - riportato sulle colonne della rivista La Boxe & Le Boxeurs - fu una mera illusione: a consegnargli la cintura di campione transalpino fu semplicemente una serie di sciagurate defezioni degli avversari, ultima quella del pugile Baptiste Pecqueriaux. Cravan era condannato a combattere contro quel mondo di cui si sentiva incompreso, pur conservando l’animo tenero del fanciullo, del pacifista che che ripudiava la chiamata alle armi. Infatti, il 3 agosto 1914, allo scoppio della Grande Guerra disertò, dando il via all’inarrestabile nomadismo, solcando tutti i mari. Sulle sponde greche si fermò il tempo di un incontro, al teatro Olympia di Atene: la sera del 16 agosto del ’14 incrociò i guantoni con Giorgos Kalafatis. Forse l’unico vero match da pugile consumato, in cui apparve «insolitamente agile», concentrato e soprattutto dirompente al punto che alla terza ripresa il greco «si piega sulle ginocchia, rovescia all’indietro la testa e infine crolla a terpresto ra, con le braccia spalancate come fosse in croce ». Tornò a Parigi, ma alla fine del ’15, convinto che in «Francia l’arte ormai vive solo di furti, di furberie e di intrallazzi» fuggì di nuovo, con Renée se ne andò in Spagna. Ed è sulle rambla di Barcellona che si ricamò, fin dai calzoncini, la reputazione di grande pugile al Real Club Maritimo. Un altro fantomatico titolo europeo conquistato in data 16 aprile 1916 a Plaza de toros gli consentì di sfidare, sette giorni dopo, l’uomo più forte del mondo, il pugile di colore Jack Johnson. Il suo idolo indiscusso, che non aveva confronti, se non con qualche epigono della letteratura: «Dopo Poe, Whitman ed Emerson – scrive Cravan – è il più grande nordamericano che sia esistito».

Jackson era una montagna nera di 110 chili, contro la quale avrebbe dovuto sostenere il peso disumano di 20 round da tre minuti. Il poeta del pugilato incassò le 5mila pesetas di anticipo della borsa da 50mila, ma dopo nemmeno sessanta secondi si lasciò cadere al tappeto, come una foglia morta. Una farsa. La folla inferocita invase il ring, chiese indietro i soldi delle scommesse pagate e provò a linciare i pugili. A quel punto Cravan comprese che l’unica via di scampo era ancora la fuga. I soldi del match li investì tutti per il biglietto che lo fece imbarcare sul Monserrat, destinazione New York. A bordo incontrò per caso il rivoluzionario russo Lev Trockij che «gli confidava di aver un gran rispetto per il pugilato, così come di tutte le attività in cui sono indispensabili forza, intelligenza e coraggio». Tre elementi che al buon Cravan non mancavano e che a New York lo resero il punto di riferimento intellettuale di Duchamp e Picabia, e l’attento Blaise Cendrars non aveva dubbi sul fatto che il nipote di Wilde avesse gettato i primi semi del movimento Dada. Il compagno Trockij sarebbe morto assassinato a Città del Messico, nel 1940, e lì approdò anche Cravan dopo aver vagato per tutte le Americhe. Si allenava alla palestra di Enrique Ugartechea, inventore della lotta libera messicana (una variante del catch e un misto di lotta greco-romana). In Messico visse la sua ultima stagione pugilistica, insegnando ai giovani dei bassifondi della capitale la nuova arte della “lucha libre”, intervallandola con lezioni di storia antica. Trentenne, aveva cominciato a leggere e a studiare. Non aveva mai smesso di scrivere invece al suo grande amore, la poetessa Mina Loy che, incinta, lo raggiunse in Messico. Quella donna che su di lui esercitava lo stesso fascino con cui Sibilla Aleramo aveva stregato Dino Campana, gli concesse gli ultimi scampoli di felicità, prima di inabissarsi, misteriosamente, nei fondali marini di Salina Cruz. In molti giurarono di averlo rivisto vivo - nel ’21 -, ma qualunque sia stata la sua fine, era tornato l’Arthur dei suoi versi: «... E sorridevo all’erba, grande trampoliere smarrito, triste di essere un pugile».