Agorà

Il caso. Cpr, il diritto della vergogna

Paolo Borgna mercoledì 3 febbraio 2021

Un’immagine del Centro di permanenza temporanea di Torino

C’è un modo 'illuministico' per affrontare il tema delle espulsioni degli stranieri presenti irregolarmente in Italia. Un approccio che si snoda attraverso alcuni passaggi logici inoppugnabili. Eccoli. Uno Stato democratico non può rinunciare ad avere contezza di chi vive sul suo territorio e dunque a stabilire i presupposti e le procedure per entrarvi e soggiornarvi. Se uno straniero vi dimora irregolarmente e, ancorché invitato, non si allontana, lo Stato dovrà occuparsi del suo allontanamento. Ma il 'rimpatrio' di uno straniero irregolare va preparato: se di lui non si conoscono l’identità anagrafica e la provenienza nazionale, lo Stato deve in primo luogo accertare in quale Paese inviare il cittadino straniero. Quindi, bisogna verificarne in primo luogo la nazionalità (con la collaborazione dei conso-lati) e poi organizzare il viaggio. Tutte queste cose richiedono un certo periodo di tempo, nel corso del quale la persona da espellere deve essere “trattenuta”. A questo servono i Centri per il rimpatrio (Cpr, un tempo Cie).

Non si tratta di “detenzione”, perché lo straniero irregolare deve essere espulso anche se non ha commesso reati. È un mero “trattenimento amministrativo”. Provocato, a ben vedere, dallo straniero stesso: perché è lui a non aver fornito alla polizia i propri documenti di identità. È questo il ragionamento che, a partire dal 1998, fu alla base della regola introdotta dalla Legge Turco Napolitano, che per prima istituì i Cie, prevedendo però un periodo di trattenimento massimo di 30 giorni (da allora gradualmente ampliato sino a 18 mesi e ora stabilito in 6 mesi). E, comunque, è quanto ci è imposto dalle direttive europee (in particolare, la 115 del 2008) che impegnano gli Stati membri all’effettivo rimpatrio degli stranieri irregolari. Tutto molto razionale e corretto. Sennonché, c’è poi la realtà. E ci sono libri come quello di Maurizio Veglio, La malapena (Edizioni SEB 27, pagine 104, euro 15,00) che ci ricordano quante volte, nel corso della Storia, ignominiose ingiustizie sono state commesse applicando leggi ispirate a principi condivisibili. Perché la realtà è più complessa della logica 'illuministica'.

Ci sono i Cpr ideali, scritti sulla carta (dove tutto funziona bene). E poi ci sono i Cpr reali: luoghi in cui, come scrive Emma Bonino nella prefazione, lo Stato di diritto è un pallido ricordo. Amiamo sempre citare Voltaire: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri». Ma qui le condizioni di vita e quelle igieniche fanno rimpiangere il carcere. L’implacabile memento che Maurizio Veglio ci mette sotto gli occhi fa male. Il “trattenimento” in gabbie che ricordano terribilmente quelle di uno zoo. Il contatto con gli operatori che, di regola, è possibile solo attraverso le piccole fessure delle grate. La possibilità di camminare soltanto nel cortile della propria area di assegnazione. La totale forzata inattività dei “trattenuti”, perché nei Centri mancano quelle strutture (biblioteche, laboratori, palestre) di cui dispongono le carceri. La presenza, mediamente, di sette persone in “moduli” di 50 metri quadrati in cui i gabinetti non sono separati dalla zona dei letti, con privazione totale della minima riservatezza. L’assenza di interruttori della luce, che può essere accesa o spenta solo centralmente dal personale. L’assenza di tavoli su cui mangiare. Il luridume. L’estenuante percorso burocratico anche della più banale richiesta legata alla vita quotidiana. La riduzione dei servizi e del personale, come inevitabile conseguenza del meccanismo dello schema ministeriale di capitolato d’appalto (del novembre 2018).

Il risultato è un imbarbarimento della vita quotidiana che dai “trattenuti” si riverbera sul personale: le forze dell’ordine che sorvegliano; gli operatori e mediatori, contrattualizzati mese per mese dall’ente gestore tramite agenzie; gli operatori legali e il personale sociosanitario. In un sistema in cui tutti sono vittime e l’odio e la diffidenza si diffonde persino tra i “trattenuti”. Gonfiando una “fame di violenza” verso gli altri e se stessi. Molto più che in carcere gli atti di autolesionismo nel Cpr sono quotidiani: labbra cucite; ingestioni di pile; tentativi di impiccagione, abuso di psicofarmaci, ustioni; e poi, tagli, tagli, tagli su ogni parte del corpo. Tagliarsi come disperato tentativo di farsi ascoltare. E ancora, la violenza sulle cose: i servizi resi inagibili, l’incendio dei materassi e delle suppellettili. Dare fuoco. Le fiamme: come umiliazione della prigione che ti umilia; come rivendicazione del diritto ad un trattamento più umano; come simbolo di scontro verso lo Stato; come grido selvaggio di guerra di chi cerca libertà.

Un grido sterile: destinato inevitabilmente a peggiorare le condizioni di vita nel Centro. Ma che dice molto sulla disperazione che lo alimenta. Un sistema che produce quest’odio denuncia, da solo, il proprio fallimento. Il fatto che in circa la metà dei casi, dopo sei mesi di “trattenimento”, lo straniero venga liberato perché non si è riusciti a organizzarne l’espulsione («Il rimpatrio è un risultato occasionale»), rende ancor più drammatico questo fallimento. Il “trattenimento amministrativo” sarà servito soltanto a distillare odio sociale. Maurizio Veglio ottiene un sicuro risultato: spiegare che quel che stiamo facendo è completamente sbagliato. Le domande su quel che dovremmo fare rimangono aperte. Un esempio fra tutti. Il trattenimento nei Cpr di stranieri provenienti da uno Stato verso cui con certezza non potranno essere rimpatriati (perché quel Paese è teatro di guerra civile o perché lì il trattenuto rischia seriamente la vita). Poiché i Cpr sono luoghi destinati a preparare il rimpatrio, la permanenza in un Centro di persone che non potranno essere espulse è, ictu oculi, un arbitrio. La frase sfuggita a mezza bocca da un ispettore con riferimento a un cittadino afgano («Intanto lo teniamo dentro tre mesi», termine massimo di trattenimento all’epoca) dà la misura di quanto queste scelte non siano sviste ma decisioni consapevoli. Ma una persona non espellibile (perché a rischio di persecuzioni o torture nel Paese di origine) può essere altamente pericolosa, pur non avendo commesso reati in Italia ma perché, ad esempio, è contigua ad ambienti terroristici.

Ed allora: che fare? Certo, si potrà applicare «un’appropriata misura di sicurezza, diversa dall’espulsione », come dice la Cassazione. Ma sappiamo che, in concreto, la soluzione non è così semplice. Nulla è semplice, in materia di immigrazione. C’è bisogno di molta intelligenza. Per ridisegnare tutto. C’è bisogno di un impegno comune, che cessi di usare l’immigrazione come terreno di propaganda per conquistare consenso. C’è bisogno, come scrive Emma Bonino, di un tempo in cui «le politiche migratorie divengano patrimonio dell’Europa e non appannaggio di 27 staterelli ognuno con i propri egoismi e le proprie convenienze».