Giappone. Regole assurde, test e controsensi. L’Olimpiade di Tokyo ha il Covid in testa
Olimpiadi di Tokyo,come in un romanzo distopico ai tempi di un virus
L’Olimpiade al tempo del Covid è una montagna da scalare. Difficile arrivarci, ma già uscire indenne dalle porte dell’aeroporto di Tokyo dopo 12 ore di volo è un miraggio anche per chi è un atleta, figuriamoci per chi non lo è. Immensi corridoi allo scalo di Narita da percorrere come viandanti alla ricerca dell’oro ti chiariscono subito quale sarà l’atmosfera: se vuoi esserci dovrai sudare.
I tapis roulant? Ci sono, ma non funzionano. Ecco, vedi che queste cose capitano anche in Giappone? Non è così, purtroppo: non sono rotti, ma si è scelto di non farli andare. Forse perché camminare distanzia di più chi arranca, o forse perché così è più facile notare le signorine carine e identiche con i capelli a crocchia piazzate ogni dieci metri come in una parata che si inchinano e ti danno il benvenuto.
Qui in effetti sono tutti gentilissimi: Tokyo 2020 ha deciso che gli stranieri dovevano stare a casa per evitare di infettare i locali che già non se la passano bene, e quelli che proprio non hanno potuto fare a meno di eliminarli, hanno deciso di torturarli. Per avere accesso all’Olimpiade, qualunque mestiere tu faccia, dal sollevatore di pesi al portaborse, occorre scaricare due app, la famigerata Cocoa, una specie di Covid-radar con la quale possono monitorare ogni tuo movimento, e l’incubo Ocha, un contenitore di tutta la tua storia medica. In pratica vorrebbero che chi sbarca sui Giochi, da già 14 giorni prima comunichi la propria temperatura e scarichi l’esito del doppio tampone obbligatorio pre-volo. Cosa che nessuno fa, specie se arriva dall’Italia, ma i giapponesi – professionali e diligenti - fingono di verificare che sia stato fatto.
Appena atterrati ovviamente si viene dirottati verso simpatiche cabine adibite a uno dei peggiori gesti che un uomo possa mostrare di sé, l’atto cioè in cui sputa. Qui occorre farlo a fin di bene però, cioè per il test salivare che va effettuato in provette di dimensioni apparentemente modeste che si rivelano in realtà adatte solo a un lama adulto. Insomma, dopo dieci minuti di versacci e ineleganti espulsioni di liquido che non sapevi nemmeno di essere in grado di produrre in un anno, un cortese addetto verifica le quantità e ti comunica che sei promosso.
Esistono mestieri peggiori del suo, è vero, ma non sono molti: così lo salutiamo con affetto e passiamo al banco successivo, dove altri simpatici volontari in divisa esaminano il primo mezzo dei sei chili di scartoffie che hai compilato, facendoti ripetere per la ventesima volta chi sei, perché sei venuto a disturbare un popolo che stava benissimo da solo, dove abiti, dove hai intenzione di dare fastidio durante le Olimpiadi, con quale volo sei arrivato e con quale volo finalmente te ne andrai.
“Arigato, arigato” grazie, inchino, e via al prossimo loculo, dove firmare altri papiri, mostrare genealogie, assicurare che non ti sei portato da casa nemmeno un pezzetto di frutta o verdura (chissà perché avrei dovuto farlo, ma questa è solo una delle cento domande che ti fai mentre passano le ore).
Quando finalmente il soggetto olimpico passa l’ultimo ostacolo e recupera la valigia per approdare all’esterno, Tokyo ti accoglie con 40 gradi e l’umidità di un giorno tropicale in una foresta tropicale. Cerchi un taxi, ma non si può. Un mezzo pubblico qualsiasi? Nemmeno. Contatti vietati, questo dice la legge dei Giochi. La famiglia olimpica non può mischiarsi con il rispettoso e sobrio popolo giapponese, nemmeno per errore.
Ecco allora le navette griffate Tokyo 2020 che ti imprigionano obbligatoriamente, stipando una trentina di persone alla volta al loro interno e che non partono ovviamente finche non sono strapiene. Dopo lunga attesa, la destinazione è un centro di raccolta (volevamo scrivere campo di concentramento, ma non ci sembrava elegante) dove l’assurdità delle regole olimpiche raggiungono il loro Zenit. Tutti giù dalle navette e via con i taxi verso il proprio hotel, rigorosamente con a bordo al massimo un passeggero per macchina, questa è la legge.
Tokyo, sotto le luci la tristezza del Covid - Reuters
Che sia un po’ strano questo Paese che ha ereditato un anno dopo un’Olimpiade malata che non voleva più e nemmeno sopportava all’inizio, è ormai chiaro. Ma chiedono scusa in continuazione, sono ragazzi, come fai a volergli male?
Anche il tizio piazzato nella hall di tutti gli alberghi selezionati con sicuro sadismo dal Comitato Olimpico Internazionale (mediamente fatiscenti e comunque dotati di camere piccole al punto da dover scegliere se entrare lasciando le valigie fuori dalla porta o viceversa, con parecchi che scelgono la seconda opzione) è un fenomeno da raccontare.
Seduto su una sedia, impassibile professionale, annota e fa firmare chiunque esca dall’hotel, con tanto di orario. E poi fa scattare il cronometro: non è uno scherzo, a Tokyo durante i Giochi quando non si seguono le gare negli stadi, si può uscire al massimo per 15 minuti, pena una segnalazione alle autorità e, per i ripetenti e i ribelli dei 16 minuti d’aria, il ritiro dell’accredito. Del resto che serve uscire se non si può visitare nulla, né andare al ristorante?
È il regolamento bellezza: vuoi esserci in un’Olimpiade giapponese in tempo di Covid? E allora ti adegui. Ah, ovviamente i pasti no, ma la colazione la può fornire l’hotel, che domattina mi ha già promesso una mela e un dolcetto dal colore inquietante confezionato in un cubotto di cartone che potrò portarmi in camera perché la sala da pranzo è sbarrata.
Ho appena ricevuto un messaggio dall’Italia sul telefonino: “che fortunato che sei a seguire le Olimpiadi, ti invidio…”. Anch’io al mittente di questa frase invidio la circostanza che me l’abbia inviata da quasi 10mila chilometri di distanza, altrimenti gli tirerei un dolcetto in testa, dando un senso almeno a quello.