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L'ARTE DELLA PUNTEGGIATURA. Così una virgola salvo la nonnina

Rossana Sisti giovedì 19 luglio 2012
C’è una sola controindicazione nello scrivere un pezzo sulla punteggiatura: ogni volta che stai per battere una virgola o un punto, ogni volta che ti scapperebbe un punto e virgola o ti verrebbe la tentazione di usare i puntini di sospensione, ti chiedi se quello sia il segno giusto messo al posto giusto e quanti scuotimenti di testa, quanta riprovazione scatteranno nel lettore erudito e purista in materia. C’è da sentirsi tremare le vene ai polsi ma con le virgole, e men che meno con le virgolette, non si scherza. Scrivere è difficile. C’è un giochino divertente che da qualche tempo gira su Facebook: ignoti buontemponi lanciano un appello, invitando a riflettere su una questione di vita o di morte in cui un piccolo segno di interpunzione (il nome tecnico della punteggiatura) fa una differenza abissale – cioè cambia profondamente il significato di una frase – in una doppia affermazione solo in apparenza identica. «Vado a mangiare nonna»«Vado a mangiare, nonna». Una virgola può salvare una vita, – è l’appello – usa la punteggiatura, salva tua nonna! Si può sorridere, certo, ma non devono averla presa con altrettanta ironia i sei milioni di correntisti di Poste Italiane che nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 2009, per un guasto informatico che ha fatto saltare la virgola di tutti i decimali, hanno visto cambiare di colpo i connotati dei propri conti.Lezioni di grammatica così ficcanti non si dimenticano facilmente. Lo stesso non si può dire per quel bagaglio di regolette, nozioni vaghe e opinabili che ciascuno si porta appresso dai tempi delle scuole medie, cui si attinge spesso con disinvolti tentennamenti, prove ed errori, talvolta provocando fraintendimenti ed equivoci nella comunicazione, ambiguità e, non ultimi, persino malintesi irreparabili come raccontano l’esempio della nonna cannibalizzata o l’altro episodio più noto del monaco Martino che per un punto (malmesso) perse la cappa di abate. Del resto tradurre il pensiero in lingua non è affar semplice e la sintassi non è matematica; né la punteggiatura può essere considerata un optional da distribuire a pioggia là dove il respiro vorrebbe una tregua.«Fate una pausa nel discorso, un respiro, mettete la virgola!» ci incoraggiavano le maestre. E il primo danno era fatto. Il punto è proprio questo, come argomenta Francesca Serafini, storica della lingua, sceneggiatrice, editor per diverse case editrici e autrice di diversi saggi sull’argomento, in un volume intitolato proprio Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura (Editori Laterza, 138 pagine, 15 euro). E che arriva come un salvagente in aiuto di quanti – scrittori per caso, per piacere o per dovere – disorientati e confusi anelano a qualche punto fermo. A una bussola per imboccare la strada giusta. Ma perché una bussola funzioni, sostiene Francesca Serafini occorre accertarsi che non vi siano nei paraggi altri magneti a condizionarne il funzionamento. L’ago normativo della punteggiatura invece è sempre stato disturbato dall’idea che i segni di interpunzione descrivano le pause del parlato. Non è così: si tratta di una vecchia regola fuorviante, visto che si scrive per essere capiti e non per essere letti ad alta voce. Senza negare che alcuni segni hanno una funzione espressiva – come l’esclamativo, l’interrogativo, i puntini di sospensione… – dobbiamo convincerci, è l’invito di Francesca Serafini, che la funzione principe della punteggiatura è logico-sintattica: serve a stabilire legami tra le frasi e a rendere comprensibile il nostro pensiero, orientando la scrittura. In sostanza si tratta di «istruzioni che lo scrivente fornisce al lettore perché possa compiere una serie di ben determinate operazioni mentali, il risultato delle quali sia la comprensione da parte del lettore del brano o della frase che ha letto». Pause, sospensioni del discorso, silenzi compresi…Accettare questo cambio di rotta aiuta per esempio a capire perché tra soggetto e verbo, tra verbo e complemento – una regola universalmente accettata – sia peccato mortale mettere una virgola e soprattutto aiuta a individuare quali segni sfoderare nella pratica perché lo scritto rispetti il pensiero. Perché quel che conta è conoscere le regole e tentare di applicarle in nome della chiarezza, non correttamente ma consapevolmente. E questo è il vero punto fermo – in realtà la vera sfida – che Francesca Serafini mette alla base delle sue linee guida, prendendo a prestito gli incubi di Perekladin, l’impiegato protagonista de Il punto esclamativo, un delizioso racconto di Anton Cechov. Competente nel maneggiare punti e virgole che abbondano nelle sue scritture burocratiche, l’uomo è disarmato con il punto esclamativo di cui non conosce l’uso semplicemente perché nei suoi testi non rientrano le emozioni che il punto esclamativo racconta. Una lezione straordinaria per il lettore impartita dall’arguta annotazione di un ragazzetto impertinente che chiude il cerchio dell’ossessione di Perekladin impiegato abitudinario, dal gesto meccanico e incosciente: «Non basta che i segni d’interpunzione li poniate correttamente... non basta. Bisogna porli consapevolmente! Voi mettete una virgola e dovete aver coscienza del perché la mettete...». Come dire che non si può prescindere dal contesto comunicativo per stabilire quale e come usare un certo segno. Si capisce perciò il senso dell’epigrafe del drammaturgo russo Isaak Babel, messa in quarta di copertina: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto».Non che la trasgressione non sia lecita. Francesca Serafini, accanto a un vademecum per l’uso corretto dei segni di interpunzione, ci racconta i tanti ribellismi d’autore, gli usi inediti, atipici e personali della punteggiatura, le sperimentazioni narrative ardite che non possono diventare esempi da copiare. Non soltanto il furore distruttivo e futuristico di Marinetti ma anche la scelta di una interpunzione casuale adottata solo a romanzo finito da Moravia negli Indifferenti. La provocazione di Sanguineti che chiude la Postkarten,62, una poesia con una punteggiatura piuttosto eccentrica, ammettendo che «oggi il mio stile è non avere stile:», dove i due punti sostituiscono il punto. L’ambiguità perseguita da Louis Aragon che nel suo Traité du style (1928) confessa la predilezione per le frasi ricche di due sensi tra i quali la punteggiatura forzerebbe, indebitamente, a scegliere.Scelte ardite che andrebbero lasciate ai professionisti della scrittura, a chi può permettersi di trasgredire le regole perché sa come maneggiarle. «A dodici anni sapevo dipingevo come Raffello – poteva dire Picasso – ma ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino». Per dire che ai comuni mortali scriventi – un popolo sempre più numeroso grazie a sms, email e social network – per i quali la priorità è farsi intendere, le licenze poetiche sarebbero vivamente sconsigliate, la coscienza obbligatoria. Scrivere è arduo e dovrebbe sempre implicare il dovere dell’autocritica. Come sempre i grandi ci vengono in aiuto. Francesca Serafini ricorda cosa scriveva Truman Capote in Musica per camaleonti: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’auto flagellazione».