Agorà

Inchiesta. Così Mosca tradì la fiducia di Longo

Roberto Festorazzi giovedì 30 aprile 2015
Nell’agosto del 1968 il segretario del Pci, Luigi Longo, venne attirato dai sovietici in una micidiale trappola, concepita allo scopo di neutralizzare la posizione di dissenso che il Partito comunista italiano stava maturando rispetto all’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Si trattò di una vera e propria congiura che, ad avviso di chi scrive, aveva anche un obiettivo ulteriore: minare la credibilità stessa di Longo, determinando la sua sconfitta e, quindi, l’uscita di scena e la sua sostituzione con un leader più prono alle direttive del Cremlino. Furono soltanto la tenacia e il freddo decisionismo del segretario del Pci – il quale, non dimentichiamolo, durante la Resistenza era stato un grande organizzatore del movimento partigiano: in quanto fine stratega politico e non soltanto militare – a invertire, a suo favore, le sorti di quella che appariva come una partita dagli esiti già segnati.In quelle settimane estive, a Mosca erano convenuti 250 capi dei partiti e movimenti comunisti mondiali. Erano stati tutti convocati con una finalità ben precisa: quella di formare un corpus unanime di opinioni favorevoli, attorno alla decisione russa di stroncare la Primavera riformista di Praga. Il Pcus e il governo di Mosca, in altre parole, avevano un’ossessione: quella di presentare l’intervento militare come una decisione indivisa che nasceva dal seno stesso del movimento comunista internazionale. Bisognava, perciò, con le buone o con le cattive, convincere anche i più riottosi leader dei Pc nazionali a non far trapelare nulla del loro dissenso, o delle loro preoccupazioni, concordando, al più, che questi mantenessero una linea di basso profilo e di massima cautela. Longo, insieme al segretario del Partito comunista francese, Waldeck Rochet, e al rumeno Nicolae Ceausescu, era tra gli avversari più intransigenti del ricorso alla forza contro il “liberale” Dubcek. I russi, contrariati dalla decisione del leader del Pci di annullare il suo viaggio a Mosca, non esitarono a ricorrere agli strumenti più odiosi della lotta politica: il coinvolgimento degli affetti famigliari. Ljudmila Pletneva, moglie di Gino Longo, primogenito del segretario comunista, fu individuata come il più facile obiettivo di un’operazione del tutto priva di morale. Ci ha raccontato lei stessa: «Nell’agosto del 1968, non ricordo la data precisa ma doveva sicuramente trattarsi della prima decade del mese, ricevetti a Milano una telefonata dall’ambasciata sovietica in Roma, nella quale mi si pregava di raggiungere con urgenza la Capitale perché l’ambasciatore, Nikita Ryžov, aveva bisogno di parlarmi. Conoscevo Ryžov e mi chiesi il motivo di quella convocazione così inusuale. In ogni caso, lo avrei scoperto molto presto perché, una volta accolta nel suo ufficio all’ambasciata, Ryžov mi disse che mio suocero, Longo, non voleva andare a Mosca, e perciò mi si pregava di insistere presso di lui per convincerlo a partire per l’Unione Sovietica perché aveva bisogno di riposare e di curarsi; una volta là, avrebbe potuto allacciare i contatti politici che gli premevano. Gli si sarebbe potuto anche organizzare un viaggio di svago in Siberia, sul lago Bajkal. Io allora andai da mio suocero e feci come mi avevano chiesto i sovietici: “Suvvia, papà”, gli dissi pressappoco, “andiamo in Siberia! Io non ho mai visto il lago Bajkal, è l’occasione buona per visitarlo”. E lui, sia pure a malincuore, acconsentì a partire».Non sappiamo se furono le parole della nuora russa a fare breccia nella tempra inossidabile del refrattario segretario del Pci, o se, piuttosto, egli si lasciò smuovere anche dalla remota possibilità di influire, in extremis, sulla dirigenza sovietica. Sta di fatto che, alla vigilia di Ferragosto, Longo e la moglie salirono su un volo di linea diretto a Mosca. Ljudmila lasciò invece l’Italia in treno-letto. Ospitato in una delle solite dacie che il Comitato centrale del Pcus metteva a disposizione degli ospiti stranieri di rango, Longo non tardò però ad accorgersi di essere caduto in una trappola. Scattò, attorno a lui, un cordone sanitario di isolamento, una “blindatura” totale che gli impedì di intrattenere colloqui con la dirigenza sovietica.L’ultimo atto del grande inganno fu bruciante come uno schiaffo. Sono ancora parole di Ljudmila Pletneva Longo: «La sera stessa dell’intervento in Cecoslovacchia [le operazioni ebbero inizio alle 23,30 del 20 agosto, ndr], fui ospite a cena da mio suocero, nella dacia. Era presente, con noi, anche il responsabile dell’Ufficio italiano della Sezione esteri del Pcus, Georgij Gorškov. Nulla lasciava presagire quel che stava per succedere. La mattina seguente, ancora del tutto ignara degli accadimenti, mi recai a fare la spesa in un negozio di beni acquistabili in valuta; lì venni avvicinata da alcuni giornalisti francesi, uno dei quali credo fosse il corrispondente dell’“Humanité”, che conoscevo di vista. A bruciapelo, mi chiesero dove fosse mio suocero, perché a loro risultava che avesse lasciato Mosca. Risposi che la cosa mi pareva inverosimile, visto che ero stata a cena da lui la sera precedente. Seppi da quei giornalisti che cosa fosse avvenuto in Cecoslovacchia. Tornai a casa di furia, e cercai di mettermi in contatto con la dacia di Longo, ma il mio telefono – che era sotto controllo – era muto: le comunicazioni erano state tagliate. Soltanto la sera, o l’indomani, ripristinato il collegamento, ricevetti una chiamata di Gino, da Milano, il quale mi domandava per quale ragione fossi rimasta a Mosca, visto che papà era già ripartito per l’Italia».Luigi Longo si legò al dito l’affronto subito, da parte dei sovietici, i quali non soltanto lo avevano gabbato, impedendogli di accedere agli esponenti russi che avrebbe voluto incontrare, ma lo avevano personalmente offeso nascondendogli quel che poté apprendere soltanto a cose fatte, da una fonte non interna (probabilmente, attraverso il “ponte” telefonico con Botteghe Oscure). Ancora Ljudmila Longo: «Quando ci rivedemmo in Italia, papà era arrabbiatissimo, con i sovietici e anche con me: “Quel che è avvenuto è stato anche per colpa tua”, mi disse, perché avevo cercato di influenzarlo nella decisione di recarsi in Urss. Fu quello stress micidiale a scatenare l’ictus che lo colpì, appena poche settimane dopo».Il segretario del Pci era rimasto indignato anche dal fatto che i russi si fossero comportati con tale abominevole assenza di rispetto nei confronti dei suoi affetti più intimi: le pressioni sulla nuora gli erano parse ignobili. Anche i rapporti personali, fino a quel momento ottimi, con l’ambasciatore Ryžov, si raffreddarono: Longo seguitò a evitarlo finché questi rimase a Roma. Quanto ai viaggi di riposo in Unione Sovietica, furono sospesi fino a quando egli restò segretario del partito, ossia sino al 1972.Resta da stabilire, a questo punto, la reale motivazione per la quale i sovietici esercitarono tali pressioni sul riluttante segretario del Pci, per indurlo a recarsi in Urss. La sola ragione plausibile, a mio avviso, risiede in un unico, possibile obiettivo: quello di “sporcare” la resistenza di Longo, e di danneggiarne la figura morale, facendo in modo che ne risultasse menomato il prestigio. Che dire, infatti, di un uomo che, se da un lato si mostrava solidale con i compagni cechi, dall’altro, nelle ore e nei giorni dell’invasione di quel Paese, si recava a Mosca per discutere con i dirigenti sovietici, ascoltandone (o recependone) le direttive? Facendo in modo che Longo venisse raffigurato come un leale dirigente nazionale che, nel pieno di una crisi internazionale di quel genere, era richiamato alla “casa madre” moscovita “per consultazione”, i russi avevano raggiunto il loro scopo: falsificare la realtà e intaccare il carisma di un leader che, se non era eretico, certo non si poteva ormai più considerare ortodosso.Il sopraggiungere dell’ictus, a metà ottobre di quel 1968, rese il sessantottenne segretario del Pci parzialmente invalido. Fu perciò egli stesso a guidare la sua successione, con la nomina di Enrico Berlinguer, dapprima a vicesegretario, nel 1969, quindi a “numero uno” del partito, tre anni più tardi.La storia del Pci, degli anni successivi, fu una vicenda dolorosa di strappi e di parziali ricuciture: i tormenti di una forza politica che, nell’indicazione di una fumosa “terza via”, si collocò nella paludosa terra di mezzo tra i sistemi totalitari del socialismo realizzato e le socialdemocrazie occidentali.