Novecento. Così Georges Duhamel vide negli Usa il tramonto dell’Occidente
Grattacieli a Chicago, anni '30
«Se mi chiedessero, nel giorno in cui le anime saranno pesate, di dire una parola, una sola, per individuare la parola chiave della mia vita, sarebbe sicuramente la parola civiltà che emergerebbe dal profondo del mio essere» dichiara Georges Duhamel in un’intervista rilasciata al “Journal des Poètes” nel gennaio del 1951. Nella stessa intervista, per definire cosa intende con civiltà precisa: «ho capito che tutte le conoscenze che possiamo accumulare, tutti i miglioramenti che il progresso ci porta, sono solo un guscio vuoto, se si tratta solo di arida scienza. La civiltà esiste solo grazie alla saggezza». E non a caso civiltà e saggezza rappresentano il fil rouge che intarsia la sua riflessione condensata in saggi e romanzi.
Autore di quasi centocinquanta opere, Duhamel (1884-1966) è considerato da André Maurois «uno dei maestri spirituali d’Europa» eppure i suoi lavori e il suo nome sono pressoché sconosciuti in Italia. Dopo gli studi di medicina e le prime raccolte di poesie si arruola come volontario, nell’agosto del 1914, per vedersi assegnato prima all’ospedale di Bégin e poi alle ambulanze in servizio sul fronte. Lì ebbe modo di curare oltre quattromila feriti ed eseguire duemilatrecento operazioni. Malgrado questa esperienza è però nei racconti di guerra o sulla guerra che decide di investire le sue energie. Col ritorno momentaneo della pace, decide di abbandonare l’arte medica per «fare tutto il possibile a impedire il ritorno dell’evento assurdo e mostruoso». Sforzo che risulterà, alla fine, vano. Vie des martyrs e Civilisation sono i primi lavori a dargli notorietà e il secondo gli assicura addirittura, nel 1918, il Premio Goncourt concedendo la parola alla tragedia della morte e al fallimento della civiltà industriale, paragonata a una nuova forma di barbarie. Sarà questo il timbro di tutta la sua successiva produzione, volta a risvegliare nell’uomo l’idea di un’altra civiltà. Nel 1919, in La Possession du monde, Duhamel espone i fondamenti di questa civiltà morale in grado di rimediare agli eccessi della meccanizzazione attraverso la rivitalizzazione dell’esprit. D’altronde se la civiltà stessa «non cresce nel cuore dell’uomo – ammonisce –, allora non si trova da nessuna parte». La critica alla società meccanizzata e la difesa della saggezza non sono una parentesi nella sua attività di saggista e di scrittore. Attraversano Géographie cordiale de l’Europe, Querelles de famille, Défense des Lettres, Querelles de famille, Défense des Lettres, Au chevet de la civilisation, L’Humaniste et l’automate, oltre a numerosi studi e articoli, diversi saggi e diari di viaggio, per poi ricomparire in Problème de l’heure, Manuel du protestataire, Problèmes de civilisation.
Viaggiatore instancabile fin dalla giovinezza, Duhamel riprende, con la fine del conflitto, le peregrinazioni attraverso l’Europa e il mondo, registrando le sue considerazioni in varie opere, tra cui Le Voyage de Moscou e il successivo Scene della vita futura. Diario di un viaggio in America, appena pubblicato dalle edizioni Medusa (pp. 162, euro 18), con la traduzione e la curatela di Giulio di Domenicantonio.Il resoconto del viaggio d’Oltreoceano è ben più di una raccolta di esperienze e annotazioni. È una critica, sarcastica ma soprattutto spietata, a uno stile di vita e a un modo di essere che di lì a poco invaderà il Vecchio Continente. Come ben evidenzia il curatore nella prefazione, Scene della vita futura si incastona alla perfezione nella stagione europea della Kulturkritik, spesso di impronta tedesca ma che trova vividi esponenti anche in Francia. Lo testimoniano non solo il celebre saggio di Paul Valéry, ma anche i successivi interventi di Robert Aron e Arnaud Dandieu, che attaccano Il cancro americano, e poi proprio il suggestivo resoconto di Duhamel, che nel 1930 innesca su “Le Figaro” un’acre polemica contro la civiltà americana. Il bersaglio principe lo si evince fin dalla conversazione iniziale tra Duhamel e il suo conoscente Parker P. Pitkin. A colpire il francese è il culto della scienza come veicolo di salute e benessere. «Guardi il menù. Di fronte a ogni piatto è stampato il numero di calorie che questo piatto rappresenta», avverte l’ospite americano pensando di guidare nella scelta delle pietanze il visitatore, il quale rimbrotta che questa maniacale attenzione per il contenuto calorico non fa altro che provocargli inappetenza. «La fede scientifica – replica Duhamel – non porta serenità agli Americani; essa cambia il loro tormento di posto e di piano», «trasformando – continua –- un pericolo immaginario in un pericolo reale». E così per il bere, il fumare, per l’eccesso di cure e di precauzioni. «Io non ragiono. Io brontolo. Da qualche giorno arrivo a pensare che il volto della ragione potrebbe diventarmi odioso». Sarebbe quel volto che porta a ingabbiare la vita all’interno di regole e lacci che ne minacciano la libertà.
Espressione dello stile di vita americano, per Duhamel, sarebbe anche il cinema, che non richiede con le sue immagini pensiero ma adesione. «Tutto è disposto – insiste Duhamel – perché l’uomo non abbia motivo di annoiarsi, soprattutto! Perché non abbia motivo di fare atto di intelligenza, non abbia motivo di discutere», avviando così verso la decadenza anche gli altri paesi toccati dall’onda cinematografica.
Ritenendo che le soluzioni ai problemi della civiltà in via di decadenza sarebbero solo di ripiego se l’uomo si dimostrasse incapace di cambiare, Duhamel sperimenta questa possibilità di salvezza nel ciclo di romanzi Vita e avventure di Salavin, di cui ora è uscito, con la traduzione di Caterina Miracle Bragantini, Confessione di mezzanotte (AGO edizioni, pagine 164, euro 16). Nelle pagine del libro (peccato che l’editore non abbia pensato a un’introduzione al testo) scorre la storia del giovane impiegato Louis Salavin, che perde il posto di lavoro per un suo gesto di follia. Non ha infatti resistito all’impulso di toccare l’orecchio del suo datore di lavoro. Da allora preoccupazioni, pensieri e tentazioni inconfessabili si alternano mentre l’uomo vagola, trasformando la sua esistenza in destino, tra le vie del Quartiere Latino nella Parigi d’inizio Novecento alla ricerca di un senso introvabile sotto le spinte delle modernità.
Ma la disillusione non è certo il sigillo di Georges Duhamel, e lo conferma la chiusa di Scene di una vita futura, quando non esita a pronunciarsi. «E se pensassi perfino che la nostra civiltà europea fosse finita, che avesse esaurito le sue ambizioni, che avesse completato tutte le sue opere… ma, questo, non lo penso».