Agorà

I classici e noi. Cosa ci indica la mano dell’Apollo

Raul Gabriel giovedì 12 dicembre 2024

L’Apollo del Belvedere in Vaticano dopo i recentirestauri

Circostanze felici e inattese mi hanno portato di recente davanti all’Apollo del Belvedere nel cortile Ottagono dei Musei Vaticani insieme ad un gruppo ristretto di ospiti che si giovava di una guida d’eccezione. E’ sorprendente come alcune opere siano in grado di stimolare riflessioni che travalicano ampiamente l’apparenza di ciò che sono, vere e proprie osmosi plastiche che confondono ambiente circostante, osservazione e pensiero in modi imprevisti e sorprendenti.

Barbara Jatta, direttrice di una delle collezioni d’arte più importanti al mondo, quella dello Stato Vaticano, per l’occasione ci illustrava brevemente alcune fasi del consolidamento che ha interessato in questi anni il doppelgänger romano in marmo bianco di uno degli ideali di armonia greca più potenti, che un destino movimentato ha riportato nella sua sede naturale, tra peripezie alterne. Attraverso le sue parole abbiamo ripercorso le varie tappe che hanno permesso di contenere in modo convincente la insidiosa fragilità che mina l’Apollo dall’interno, in un connubio di clinica, diagnosi e cura che farebbero invidia al migliore dei reparti ospedalieri. Confesso che in genere non sono particolarmente attratto dalle questioni della conservazione, inconciliabili con il dna fatalista che devo alle mie origini e con una insofferenza impenitente a pratiche necessariamente inchiodate alla competenza artigianale.

Nonostante la premessa scoraggiante quella presentazione appassionata ha fatto sì che nel setaccio della mia memoria rimanesse incagliato un particolare talmente ricco di suggestioni da obbligarmi a scriverne, circostanza elevata a simbolo. Le cose stanno più o meno così: tra i tanti interventi che lo hanno caratterizzato, il recente restauro dell’Apollo è stato l’occasione per sostituire la mano sinistra realizzata dal Montorsoli, a sua volta sostituto dell’originale andato perso, con un modello ricavato sul calco della “mano di Baia”, presumibilmente più aderente alla versione iniziale dell’opera. Fino a qui qualcuno potrebbe obiettare che non c’è nulla di speciale. Si sbaglia. La caratura dell’opera, di ciò che rappresenta e l’ibrido procedurale scientifico che ne ha interpretato il restauro ne fanno un caso a parte.

Intervenire sulle logiche misteriose dell’equilibrio dinamico reso tangibile dalla visionarietà dello scultore senza risultare invasivi e contemporaneamente stabilizzare forme compromesse dalla propria stessa sofisticata plasticità marmorea è impresa dall’esito non scontato. Per come la vedo l’intervento su quella mano non è propriamente conservazione. E’ altro, proiezione nello spazio e nel tempo di una intuizione ingabbiata dentro la materia come un sussulto che per qualche ragione resiste oltre l’assenza ai vari passaggi, alle interpretazioni, agli sguardi, ai pensieri. Ci vuole uno sguardo strabico per gestire il conflitto tra esuberanza dei virtuosismi estetici e l’urgenza della fisica sempre pronta a chiedere il conto a chi pensasse di potersene liberare perché immerso in un trasporto creativo spregiudicato.

Metamorfico e splendente, l’Apollo del Belvedere è la metafora perfetta di una bellezza insidiata dalla disgregazione che la costituisce e minaccia di scomporla nuovamente nei mille grani di zucchero in carbonato di calcio che sono la sua fibra nervosa e muscolare, nucleo di armonia protempore che ricorda la natura cangiante delle cose, il luccichio transitorio delle forme, nostalgia di qualcosa che un giorno, forse, deciderà di manifestarsi una volta per tutte.

Quella mano, intersezione incongruente e perfetta tra gesto e forma, concetto e materiale, artigianato e poesia, perduta e ritrovata attraverso un calco che fortuitamente ne preservava la memoria, non è la rifinitura anatomica di una anatomia incompleta. E’ invece l’onda lunga dell’elettricità che deve aver percorso l’artista al momento della creazione, misura di una indagine formale in cui la materia inerte tenta la realtà, invitando il mondo circostante dei volumi e dei visitatori ad un dialogo affrancato dalle geometrie rigide, sclerosi sterile che assedia del suo assedio soffocante il dogma ambiguo del compiuto. Suggerimento, ancor prima che rappresentazione, percezione che da qualche parte la statua deve pure conservare nel suo proprio apparato propriocettivo autonomo nascosto tra i grani luminosi e metamorfici che la rendono concreta e inaccessibile.

Cercare la mano persa dell’Apollo è cercare l’intenzione prima amputata dalla inesorabile noncuranza dei secoli che prima o poi erode ogni esempio di utopia greca, bellezza affascinante ed effimera, idea che rivendica il diritto ad evaporare lasciando per ricordo un residuo dell’ombra che è stata, forse, da qualche parte. La mano che impugnava l’arco è diventata la freccia che indica noi, che indica a noi, che ricorda quanto ogni tentativo di esistenza sia un messaggio mirabile e disperato lanciato nel vuoto pieno di materia che abitiamo, che ci abita, che non sa, che cerca e si risolve ripiegando su se stesso.

Trovo che la dichiarazione metodologica sottesa a quella mano, il suo ritrovamento e il suo riprendere il posto scomodo di aggancio all’essere tangibile sia una vera e propria dichiarazione filosofica, filologia di una mano, filologia di un gesto del pensiero che riverbera nella concretezza, la cui eco si perde negli spazi minimi delle cose, dimensione dell’infinito che contengono. Oggi ci divertiamo a ricostruire mondi virtuali con sensori e visori di ogni tipo. E più o meno tutti abbiamo presente come attraverso specifici stimoli percettivi siamo in grado di pilotare supercar avvenieristiche, aerei di linea e caccia, scalare montagne, affrontare battaglie aliene nei pressi del Tannhäuser Gate. Gli effetti fisici e psicologici sono sorprendenti anche se non ci muoviamo da una stanza, a volte non ci muoviamo proprio.

Illusione, non illusione: è il trasferimento della nostra percezione a dimensioni inconsuete, è inequivocabilmente un fatto. La mano dell’Apollo e la storia della sua ricerca incarnano tutta la potenza virtuale del gesto percepito, previsto, immaginato, accennato, pensato, il gesto-spora in fase di germinazione che schiude al mondo intero. Cosa, non è dato sapere. La mano del Belvedere ci dice quanto la verità delle cose è nel prima di ciò che indagano, scrigno ineffabile che affiora alla realtà grazie all’espediente provvidenziale della forma. Non me ne voglia Winckelmann se dopo quella presentazione penso all’Apollo del Belvedere come una mano che proietta la sua traiettoria di bellezza ellittica, boomerang dello spirito, sintesi di corpo, testa, tronco, gambe, braccio e avambraccio, tutti mirabilmente attrezzati per la conquista della storia, tutti orfani di eternità immaginate.

Questo modo del restauro ha a che fare con l’enigma affascinante e irrisolvibile del probabile possibile, custode dell’unico gesto di speranza disperata che gettiamo continuamente all’esterno come un’esca cui niente sembra mai abboccare. Se il gesto accade, se crede di poter completare se stesso finisce per perdersi nella eco degli infiniti gesti cui una storia mai avara di indifferenze regala l’anonimato inesorabile della polvere.