Religioni. Cosa accade se Gesù torna a parlare ebraico?
Duccio di Buoninsegna, “Gesù Cristo risorto appare agli apostoli sul monte di Galilea”, dalla “Maestà” (1308-1311)
In cosa è diverso questo commento da tutti gli altri commenti ai Vangeli? In effetti, l’aggettivo diverso è l’unico che coglie la novità quasi assoluta di questa impresa, che oltre ad avere un chiaro valore religioso e teologico ha pure un enorme valore culturale. Mai nessuno in Italia si era azzardato a tradurre, ma potremmo anche dire ri-tradurre, i quattro testi evangelici e poi l’intero Nuovo Testamento lasciando i nomi propri e i terminichiave nella loro lingua davvero originale: l’ebraico. Certo che abbiamo ricevuto questi testi in greco! Ma ciò non significa che siano nati o siano stati elaborati in greco. È un’ovvietà, forse, per alcuni (ma si tende a ignorarla o rimuoverla), che il rabbi Gesù e i suoi discepoli e quanti ne diffusero gli insegnamenti all’origine parlassero, in quanto ebrei, non greco ma ebraico (oltre che aramaico). Farne il perno per una nuova versione produce un effetto al contempo straniante e stupefacente, che sveglia all’improvviso i riflessi e sfalda l’assuefazione mentale. Edita da Castelvecchi, l’opera in tre volumi si intitola Nuovo Testamento. Una lettura ebraica. Il primo volume appena uscito copre Vangeli e Atti degli Apostoli (con glossario e bibliografia; pagine 494, euro 25,00); il secondo è dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (uscirà tra poche settimane); il terzo contiene gli altri scritti neotestamentari, Lettere e Apocalisse, cui è stata aggiunta la Didachè (apparirà a novembre). Quest’impresa, opera dell’ebraista Marco Cassuto Morselli e della grecista Gabriella Maestri, con le sue brevi introduzioni, i commenti e le note sembra rivelare qualcosa che, da sempre sotto gli occhi di tutti – come la famosa “lettera rubata” di Edgar Allan Poe – nessuno di solito riesce a vedere. Il risultato è quello di ritrovare un Gesù che non si chiama più, italianizzato, Gesù ma Yeshua e che parla la sua lingua usando termini attinti alle Scritture ebraiche, non goffe traduzioni o addirittura traduzioni di traduzioni. Sin dalle prime righe i curatori ammettono onestamente le loro precomprensioni, da cui derivano i criteri del lavoro traduttorio: «L’ebraicità di Yeshua e dei Vangeli è stata a lungo rimossa. Per iniziare a recuperarla nel nostro lavoro abbiamo scelto di non tradurre i nomi propri, sia di persone che di luoghi. (...) La nostra attenzione si è rivolta soprattutto all’esame di quei punti problematici i quali hanno offerto materia per la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. E al fine di restituire, per quanto possibile, i testi alla loro matrice ebraica abbiamo scelto di riportare in ebraico alcune parole di particolare rilevanza semantica». Ad esempio, termini come teshuvà per conversione, malkhut per regno, mashalper parabola, tevillà per battesimo, ruach( al femminile) per spirito, Mashiah per Cristo... e soprattutto i nomi biblici per indicare Dio, che sono pregni di una teologia ebraica che né il greco né le traduzioni moderne riescono ad esprimere prestando il fianco a ogni genere di riempimento allotrio. Ci hanno messo tredici anni di studio e di lavoro congiunti, l’ebraista e la grecista, per completare questa riscrittura delle Scritture cristiane, tenendo fisso ma ben calibrato il criterio ultimo: cercare di riportare i testi neotestamentari alla loro matrice linguistica e lessicale ebraica, e dunque alla sua complessa tessitura concettuale, e tale che impedisca di pensare quello che, invece, per secoli molta cristianità ha pensato e teorizzato: che Yeshua abbia predicato un Dio diverso da quello della rivelazione mosaica; una legge altra rispetto alla Torà sinaitica o che l’abbia dichiarata superata; un’etica avversa a quella, che invece Gesù condivideva e praticava, delle scuole farisaiche del suo tempo. Concludendone che il cristianesimo ha “portato a compimento” l’ebraismo sì che la Chiesa sia il sostituto di Israele. Se tutta questa quantità di pensieri ha davvero origine dai Vangeli, dicono Cassuto Morselli e Maestri, andiamo a verificarlo nei testi, scaviamo nel greco neotestamentario e cerchiamo di ricostruire i termini e i concetti che nessuna scuola ellenistica poteva aver inventato, perché sono la specifica eredità spirituale e letteraria del popolo ebraico. Del resto è impossibile capire i racconti evangelici se non ricostruiamo la vita e la predicazione gesuane a partire dal loro contesto sociale, dalle due lingue da lui usate ossia l’ebraico e l’aramaico (e non solo l’aramaico) e da milieu concettuale e geopolitico in cui Yeshua ha vissuto. Fino a oggi non esisteva un’opera simile in Italia; è disponibile in inglese, made in Usa, un Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Bretter ed edita a Oxford, ma si “limita” a una ricca messe di note da parte di una estesa équipe di studiosi ebrei, ma non è un tentativo di restituire a Yeshua la sua lingua, i concetti che usava e i nomi a lui familiari. Forse esiste un lavoro simile in Israele, ma con altre premesse. In tre volumi, quest’opera è un unicum: si pensi ai modi in cui le traduzioni ufficiali del Nuovo Testamento nominano Dio. Dio è termine greco, generico e valido anche per gli idoli; il Dio di Israele, in ebraico, non si dice, perché è l’Innominabile e l’Impronunciabile. Solo quel geniale traduttore moderno, in francese, che fu André Chouraqui si pose il problema: quale Nome sta dietro il termine Kyrios? Il Tetragramma? Elohim? Inoltre, mai uno di questi nomi sarebbe stato usato da ebrei per un essere umano. Come si distingue, nel greco della koinè, la signoria teologica da quella cristo-logica? In questa riscrittura e lettura ebraica del Nuovo Testamento viene fatto lo sforzo di rispettare queste basilari distinzioni, che solo chi traduce «a partire dalla fede ebraica» e nella conoscenza e nel rispetto di essa può cogliere (gli altri neppure si accorgono del problema). Maestri e Cassuto Morselli scrivono ancora: «La Parola del Santo, benedetto sia, è infinita, e il fiume della Rivelazione si riversa nelle limitate parole dell’uomo. La sua infinita polisemia ha bisogno di un continuo lavoro di ascolto e di interpretazione, la Scrittura cresce con il suo lettore, e i lettori di oggi sono donne e uomini che vivono il tempo del dialogo tra ebrei e cristiani. Da secoli i cristiani leggono e commentano le Scritture ebraiche, in tempi recenti anche gli ebrei hanno iniziato a leggere le Scritture cristiane». I tempi a cui qui si fa riferimento ebbero inizio in Europa nel XVII secolo con Orobio de Castro e Spinoza e arrivano ad Abraham Geiger, Jules Isaac e Susannah Heschel; in Italia si parte da Leone Modena e si giunge, più vicino a noi, al rabbino livornese Elia Benamozegh. Ma il solco più recente è quello tracciato da pionieri come Lea Sestieri, Paolo De Benedetti ed Elia Boccara. L’impresa del duo Maestri-Cassuto Morselli è un azzardo? I critici (sia ebrei sia cristiani) non mancheranno; anzi, speriamo che non manchino: ciò significherà che questo lavoro è stato preso sul serio e che il dialogo ebraico-cristiano ha ancora qualcosa da dire.