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Letteratura. Così Enrico Palandri riscrive i suoi romanzi

Roberto Carnero mercoledì 15 gennaio 2020

Lo scrittore Enrico Palandri

Oggi molti scrittori, spinti dai ritmi industriali della produzione editoriale, tendono a far uscire un libro all’anno (se non di più), mentre capita raramente che un autore “riscriva” le proprie opere, tornando a distanza di tempo sulle pagine già pubblicate attraverso un lavoro di meditazione e di perfezionamento sui temi e sullo stile. Eppure nella storia della letteratura italiana i grandi scrittori dei secoli passati hanno quasi sempre passato la vita (più o meno lunga che sia stata) attorno a un’opera sola, che poi è quella che ha conferito loro un seggio nell’Olimpo dei classici: Dante con la Commedia, Petrarca col Canzoniere, Boccaccio col Decameron, Ariosto e Tasso rispettivamente con l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata, Manzoni coi Promessi sposi... Altri tempi, si dirà. Ma ora Enrico Palandri – si parva licet – ha effettuato esattamente la stessa operazione di questi illustri colleghi del passato.

Esce oggi presso Bompiani un ponderoso volume dal titolo Le condizioni atmosferiche( pagine 790, euro 30,00), che contiene i sei romanzi centrali della carriera narrativa di Palandri. Dico centrali in senso “cronologico”: dopo Boccalone (1979), il libro dei «ragazzi del Settantasette» che segnò l’inizio della giovane narrativa italiana (l’autore allora aveva solo 23 anni), e prima dell’ultimo romanzo, L’inventore di se stesso (uscito nel 2017). Se già nel corso di questi decenni la scrittura è sempre stata per Palandri un lento processo di riflessione e di sedimentazione, ora la riscrittura di questi testi ha offerto all’autore l’occasione di una loro rielaborazione nello stile e anche nella struttura, in modo da rendere evidenti i legami tra i diversi romanzi (alcuni personaggi crescono e tornano da un libro all’altro), che così appaiono come le tessere di uno stesso mosaico: un quadro individuale, personale, ma anche collettivo, sociale, civile, persino politico (magari nell’assenza della politica), capace di parlare dell’Europa di ieri e di quella di oggi, sullo sfondo di un mondo sempre più globalizzato.

Perché Palandri è uno dei pochi scrittori italiani autenticamente europei. Questo anche per le sue vicende personali: nato a Venezia nel 1956, la città dove da alcuni anni è tornato a vivere, dopo il successo di Boccalonedecide di lasciare l’Italia per trasferirsi a Londra, dove comincia a insegnare italiano fino a diventare “Writer in Residence” a UCL (University College London), la prestigiosa istituzione accademica dove oggi è professore di Letteratura europea moderna. Nel frattempo Palandri si è costruito una prestigiosa carriera di narratore, nel corso della quale ha saputo interpretare i cambiamenti più significativi della società italiana negli ultimi decenni. La decisione di andare a vivere in Inghilterra, all’inizio degli anni Ottanta, e la lontananza dalla società letteraria italiana gli hanno consentito di guardare l’Italia dall’esterno, con una certa dose di distacco (mai però totale) e sempre con notevole lucidità. Insegnare in un Dipartimento di Italianistica lo ha tenuto a stretto contatto con la tradizione letteraria italiana, ma il fatto stesso di abitare in una città come Londra ha contribuito a conferire al suo lavoro un’apertura internazionale, quale a stento troveremmo in altri scrittori nostrani.

Ricorda oggi nella postfazione al volume: «La vita a Londra, dove ero andato per fare lo scrittore, aveva trasformato il mio modo di essere al mondo: abitare un paese straniero, separare la lingua di ogni giorno da quella in cui si scrive per scremarla dagli elementi corrivi e lavorarla, accordarla come uno strumento musicale, aveva anche separato il mio sentire personale dalle vicende della politica». Dopo Le pietre e il sale (1986), scavo memoriale (ma volutamente distaziato dall’autobiografia) negli anni di una formazione “provinciale”, con La via del ritorno (1990; il libro è stato ripubblicato nel 2001 con il titolo al plurale, Le vie del ritorno) Palandri dà un romanzo che raffigura l’onda di riflusso degli ideali, delle speranze, delle utopie di una generazione che aveva vissuto le esperienze più significative negli anni Settanta; uno stato d’animo, generazionale, di cambiamento ma anche di delusione. Con Le colpevoli ambiguità di Herbert Markus (1997), sotto l’apparente plot narrativo di una spy-story postmoderna, ci si interroga sulla Storia, sui cambiamenti prodottisi in Europa con la caduta del Muro di Berlino e sulle loro conseguenze nella percezione della realtà politica, sociale e culturale (ma anche psicologica e affettiva) da parte degli individui: una riflessione per dare un senso all’essere qui e ora, senza più gli appoggi storici e ideologici del passato recente. Il romanzo successivo, Angela prende il volo (2002), è incentrato sul tema del tempo, questa volta non il tempo storico bensì quello della fisica.

Ma non si pensi a un romanzo-saggio, perché l’opera è innanzitutto la storia aerea e leggera di una ragazza di sedici anni, che si interroga sul rapporto con la famiglia, e in particolare con il padre, ricercatore nel campo della fisica, che, separatosi dalla madre di lei, ora ha una nuova famiglia. Angela gli vuole bene, ma intimamente gli rimprovera di averla abbandonata divorziando e, più avanti, di essere sul punto di abbandonarla ancora, quando lui le confesserà che sta morendo di cancro. Grazie a un amico del padre, suo alterego a lui complementare, Angela ricompone i tasselli della vita del genitore. Sui temi della coppia, della famiglia, della genitorialità è incentrato anche L’altra sera (2003), un libro che parla di quell’incomunicabilità che ha a che fare con i sentimenti, le emozioni, i gesti, soprattutto nelle relazioni d’amore, che a volte si spezzano a seguito di crisi indecifrabili, imprevedibili nella loro apparente inesplicabilità. Infine, nel romanzo successivo, I fratelli minori (2010), l’autore ripercorre i drammi e le inquietudini della Storia italiana degli ultimi decenni, attraverso le vicende di due fratelli veneziani: ancora una volta, in una narrazione di grande maturità, intensità emozionale e forza introspettiva, il piano pubblico si intreccia con quello privato, a mostrare – attraverso il radicarsi delle persone le une alle altre, con gli affetti e le rivalità – come la Storia non sia una dimensione astratta, ma come anzi rappresenti qualcosa che interpella ogni individuo nelle scelte fondamentali che è chiamato a compiere.

C’è una frase di Silvio D’Arzo che verosimilmente Palandri sarebbe pronto a sottoscrivere: «Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai di più di una città distrutta dal fuoco». In questa capacità di approfondimento giocato tutto su una chiave di realismo dell’interiorità, Palandri si conferma, con questo ambizioso ciclo narrativo, un autore che ha pochi eguali tra gli scrittori italiani contemporanei. Forse lo potremmo accostare a narratori importanti per il suo percorso artistico, come Kundera, McEwan o Yeoshua, anche per l’aria per nulla provinciale che si respira nella sua scrittura e che ci consente di librarci al di sopra delle varie meschinità dell’Italietta in cui viviamo.