Agorà

Le Havre. Così la schiavitù sbarcò sulle coste di Normandia

Maurizio Cecchetti venerdì 8 settembre 2023

Théodore Géricault, "Zattera della Medusa" (Museo del Louvre, 1818-'19)

La lunga strada della decolonizzazione non è mai finita. E qualcuno si domanda se il prefisso “post” non abbia mascherato, negli ultimi decenni, una diversa tutela culturale dei paesi colonizzatori sui colonizzati. Molti stati dell’Africa di oggi non hanno chiuso i conti con la storia dei loro conterranei segregati, venduti, uccisi dai colonizzatori che li hanno sfruttati fino alla morte impiegandoli nelle piantagioni da cui avrebbero ricavato zucchero, caffè e tabacco arricchendosi e godendo un benessere fondato per oltre tre secoli sulle sofferenze e le umiliazioni inflitte a uomini e donne di colore.

La Francia è stata una delle nazioni che più hanno praticato con impegno la tratta dei neri per far prosperare la sua economia. Alcuni decenni or sono, sulla rivista “Hérodote”, apparve una intervista al grande scrittore e poeta Aimé Césaire, originario della Martinica – che con il poeta senegalese Léopold Sédar Senghor ha fatto emergere la presa di coscienza della profonda tradizione culturale che si condensa nella “negritudine” – il quale concludeva le sue dichiarazioni affermando: «Ai miei occhi, l’essenziale è la decolonizzazione unilaterale… Quella delle strutture. Quella delle mentalità. Quella delle istituzioni».

Sono trascorsi molti anni, tutt’altro che pacifici, nel segno di questa decolonizzazione, e nonostante qualche passo avanti quantomeno formale, resiste uno spirito che da un lato spinge gli eredi dei colonizzatori a cercare giustificazioni storiche alla Tratta e alla Schiavitù, e dall’altro lato, quello degli africani, perdura un rancore antioccidentale che ha le sue ragioni, ma finisce per spargere altra violenza e sangue. Il 10 maggio del 2001 il Parlamento francese adottò all’unanimità una legge che accoglieva la richiesta di molti affinché la schiavitù fosse considerata un crimine contro l’umanità. Era un punto di arrivo soltanto iniziale, dopo molti tentativi, come l’appello sottoscritto nel 1998 da Wole Soyinka, Patrick Chamoiseau e Édouard Glissant. Con Chirac, qualche anno dopo, nel 2006, la data della legge diventò anche quella della giornata nazionale.

All’epoca, l’obiezione degli oppositori alla legge sosteneva che la Tratta non poteva essere considerato un crimine contro l’umanità perché, dicevano, il fine non era lo sterminio degli africani, ma solamente farli lavorare più intensivamente possibile, tuttavia portando molti di loro alla morte. Il contemporaneo dibattito sull’Olocausto sembrava quasi giocare come testimonianza a discarico per chi con la tratta e la schiavitù si era arricchito indegnamente. La Tratta non è la Shoah, forse pensavano quelli che cercavano giustificazioni storiche. Glissant, che fino al 2011, anno della sua morte, è stato il continuatore indomito della “decolonizzazione” predicata da Césaire e Senghor, quando lo incontrai quindici anni fa a Mantova, mi espose un ragionamento che non fa una piega: «Si arriva a dire che la storia della colonizzazione ha fatto anche bene. Ma se si dice questo è perché si avverte di dover fare i conti con quella storia… Sappiamo bene che con la tratta dei neri Francia e Inghilterra hanno finanziato la loro industrializzazione, così come sappiamo, oggi, che la globalizzazione è un grande affare che, come il colonialismo, produce redditi con lo sfruttamento degli uomini».

Fare i conti con quella storia, dunque. Appello urgente quando si scoprono ancora molte zone lacunose nella ricostruzione dei fatti e delle memorie. E perdurano forme di razzismo. Una mostra in corso su tre sedi in Normandia, intitolata Esclavage, mémoires normandes, cerca proprio di sollevare il velo della renitenza storiografica che ha pesato a lungo sulle vicende della “Tratta atlantica”, definizione che ricorre nelle opere consacrate alla questione del commercio coloniale fra Europa, Africa e America, che è costato la deportazione di 12 milioni di africani. Nel 2007, la rivista che per molto tempo è stata l’unica in Francia a occuparsi di storia delle tratte e della schiavitù, “Cahiers des Anneax de la Mémoire”, dedicava un articolo a “Le Havre-négrier”, ovvero scavava nell’oblio in cui era caduta la storia della schiavitù in Normandia.

Inaugurata simbolicamente il 10 maggio di quest’anno (e aperta fino al 10 novembre), questa mostra vuole fare il punto degli studi che hanno cercato di colmare questo vuoto. E si concentra anzitutto sul triangolo portuale normanno che attua e finanzia la tratta nei secoli: Havre, Honfleur e Rouen. Nel Settecento, tanto per dare una misura, in questo triangolo portuale vennero organizzate ben 500 spedizioni nei paesi africani. Secondo il principale curatore della mostra, Éric Saunier, l’oblio della Tratta in Normandia è in parte causato dai disastri della Seconda guerra mondiale, soprattutto i bombardamenti dell’estate 1944 che distrussero una parte cospicua dei luoghi della memoria della tratta. E i tempi della ricostruzione e creazione di nuovi luoghi di studio specifici sono stati lenti. 1984, un colloquio all’Università di Nantes sulla “Tratta dei Neri”; 1991 l’esposizione a le Havre intitolata Les Anneaux de la mémoire; 1998, per i centocinquant’anni dell’abolizione della schiavitù, nasce sempre a le Havre un centro di formazione e ricerca in scienze umane che si occupa più assiduamente della colonizzazione.

Altra causa del ritardo negli studi la posizione del litorale normanno in rapporto all’Atlantico: aperto sì sull’Oceano, ma quel litorale guarda ancorpiù alla Manica, e storicamente lega strettamente i porti normanni all’Inghilterra. Questa vicinanza, dove Havre è la punta avanzata delle città frontaliere marittime, ha molto movimentato il commercio degli schiavi verso Londra, anziché verso uno dei grandi porti dell’Atlantico legati alle colonie americane. Già il prete spretato e politico francese conosciuto col nome di abbé Grégoire nel 1822 aveva definito “negrieri” tutti quelli che si rendevano complici della Tratta. Ma questa strada tracciata e giunta a una svolta con l’abolizione della schiavitù nel 1848, si può seguire nelle sue vicende materiali in questa mostra che funge quasi la power point di una ricerca che trova nel catalogo-libro edito in francese da Silvana editoriale lo strumento più adatto per comprendere i risultati di quelli che sono a tutti gli effetti studi di antropologia e storia culturale. Viene, per esempio, esposto con documenti e immagini, il dualismo fra giustizia sociale e tratta. Emerge, infatti, che la tratta non riguarda soltanto le élite degli armatori, dei comandanti delle spedizioni, dei proprietari delle piantagioni, ma anche gran parte della società havrense del settore degli artigiani e dei lavoratori portuali, così pure degli uomini di legge e dei marittimi.

Questo riflesso sociale allargato ha avuto il merito di aprire un dibattito pubblico già lungo il XVIII secolo. Ma la ricerca attuale ha messo in luce che non esiste soltanto il mondo degli schiavi comprati e venduti, esiste anche una fascia di africani emigrati in Europa dall’Africa o dalle Antille ed entrati in Francia da persone per così dire libere al servizio di famiglie o dei datori di lavoro che li hanno di fatto trattati alla stregua degli schiavi. Un fenomeno che fino al 2000, ricorda Saunier, era rimasto praticamente invisibile. In una contrapposizione fra “storia dall’alto” e “storia dal basso” emerge così un altro contrasto, quello fra la classe dei proprietari di piantagioni e armatori, e la classe dei marinai imbarcati sulle navi a vogare dopo essere arrivati in Normandia non come schiavi, rispediti quindi di fatto verso i paesi di provenienza e magari incarcerati dalla Polizia dei Neri creata nel 1777. Questi, alla fine, potevano essere venduti ai mercanti di ebano sulle coste dell’Angola e della Guinea a integrare la forza lavoro degli schiavi africani.

La “Tratta normanna” ebbe una certa precocità, precedendo forse di un secolo la data del 1642 con la quale Luigi XIII autorizza il commercio degli schiavi. Così da Dieppe, centro dove il sapere cartografico raggiungeva l’eccellenza già dal XV secolo, comincia la storia della presenza normanna in Africa, svolgendo un ruolo primario nella costruzione di quella che Olivier Pétré-Grenouilleau, autore di un importante e discusso studio sulla “tratta degli schiavi”, ha definito «ingranaggio negriero». A le Havre la tratta continua ben oltre il 1848, ovvero per buona parte del Secondo impero. Nel catalogo uno spazio è dedicato a Géricault, il pittore della Zattera della Medusa, il quadro che celebra il naufragio della nave francese lungo le coste senegalesi per l’incapacità del suo comandante; l’equipaggio era in gran parte costituito dal battaglione africano. Morirono quasi tutti. L’opera costò al pittore mille tormenti e quando venne presentata nel 1819 sollevò grande clamore, perché era un evidente atto d’accusa verso la vigliaccheria delle classi dirigenti della Francia. Nel quadro, come notò nel 1842 Charles Blanc, «c’è un negro alla sommità della tela». È l’uomo che sventola il drappo al culmine della piramide umana. Quest’opera resterà nella storia dell’umanità perché fa giustizia di una vicenda che era ancora tutta da raccontare nella sua verità. Mentre la dipingeva Géricault ebbe un mezzo esaurimento nervoso. Oltre trascorrere giorni all’Ospedale Beaujon sui tranci di anatomia dei cadaveri dei condannati a morte o dei diseredati sociali, per conoscere, “sentire”, la forza del mare, il vento gelido sulla pelle, la potenza soverchiante dell’acqua, come accade ai naufraghi della Medusa, si recò anche alle Havre, sugli scogli. E forse, si può supporre, volle vedere con i suoi occhi fin dove poteva spingersi il crimine dell’uomo verso i propri simili, scrutando l’arrivo dall’Africa di un carico di schiavi. Mi piace pensare che sia nato da questa esperienza diretta l’inno, anche nella forma dell’immagine, per un popolo tradito dai soloni del progresso e della civiltà. La grande ipocrisia di sempre. La Francia ha molti conti ancora da saldare con la propria storia coloniale.

Due giorni fa, in contemporanea, i due maggiori quotidiani francesi, “Le Figaro” e “Le Monde”, hanno dedicato una pagina al fallimento di un progetto politico che mirava a creare un nuovo soggetto, la “FrançAfrique”. Era un tema ricorrente nel dibattito francese di fine XX secolo: alcuni denunciavano il tentativo sospetto di Parigi di saldare alleanze con le principali capitali francofone del Continente Nero. Ma da quando America, Germania, Giappone e Cina hanno cominciato a spartirsi la torta africana, il progetto francese, che più che “post” sembrava neocoloniale, è tramontato. Lo sosteneva, appunto, nell’intervista con “Le Monde” del 5 settembre scorso il ministro degli Esteri Catherine Colonna, affermando a chiare lettere che la “FrançAfrique” è una idea morta e sepolta dai nuovi assetti geopolitici (rafforzati dalla guerra in Ucraina) che legano vari paesi africani a Russia e Cina, senza dire di paesi come Niger e Gabon dove i recenti colpi di Stato mettono a dura prova gli stessi piani di Macron sull’Africa: «La Francia – dichiara il ministro – è in ascolto degli africani, non vuole sostituirsi a loro». Ma in questi paesi excoloniali dove magari si leggono oggi scritte del tipo “Viva la Russia”, molti combattono la tentazione di insediare al potere l’“uomo della Francia” in Paesi dove la popolazione coltiva ancora il rancore verso Parigi per le antiche colonizzazioni.