Shoah. Così la memoria sfida il pregiudizio
Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa
L’irruzione online risale al 10 gennaio: durante una presentazione del libro La generazione del deserto (Manni, pagine 256, euro 16,00), nel quale Lia Tagliacozzo ricostruisce le vicenda della sua famiglia di ebrei romani durante la Shoah, un gruppo di disturbatori è riuscito a intromettersi con insulti, slogan nazisti e immagini di croci uncinate. Se ne è parlato molto, anche se, commenta l’autrice, «è uno stupore che un po’ mi stupisce». A vent’anni esatti dalla prima celebrazione del Giorno della Memoria (istituita per legge nel 2000, la ricorrenza del 27 gennaio entrò ufficialmente in calendario nel 2001), i segnali di antisemitismo e, più in generale, di intolleranza tornano a manifestarsi con frequenza inquietante. Non è soltanto un retaggio del passato, se è vero che molti giovani ebrei italiani si trovano a fronteggiare i pregiudizi dei coetanei. Per venire incontro alle loro esigenze di chiarezza Saul Meghnagi e Raffaella Di Castro hanno curato per Giuntina L’ebreo inventato (pagine 320, euro 18,00), una raccolta di saggi che permette di ribattere ai luoghi comuni sull’argomento. Senza alcun intento polemico, ma nella prospettiva di quello che Meghnagi, pedagogista di formazione e consigliere dell’Ucei (Unione della Comunità ebraiche italiane) definisce «un metodo utile a tutti coloro che devono affrontare il pregiudizio». Compreso quello per cui tra storia e memoria verrebbe a prodursi un conflitto.
Non è di questa opinione Camillo Brezzi, che in L’ultimo viaggio (il Mulino, pagine 176, euro 15,00), ricostruisce le fasi iniziali della deportazione, servendosi delle testimonianze di figure significative come Liliana Segre, Sami Modiano, lo stesso Primo Levi e altri ancora. «Affermare che la memoria non è di per sé la storia – dice lo studioso– non significa negare che la memoria sia utile, e spesso addirittura indispensabile, alla storia». Sono prospettive diverse, quelle indicate dai libri che abbiamo appena elencato, ma niente affatto in contraddizione tra loro. «L’elemento irrinunciabile – sottolinea Lia Tagliacozzo – è rappresentato dal valore del Giorno della Memoria, che permette di parlare pubblicamente della Shoah. In precedenza non era così, anche all’interno di famiglie che, come la mia, avevano vissuto il dramma della persecuzione. Nei sopravvissuti prevaleva il desiderio di andare oltre, senza voltarsi a guardare indietro. Era un atteggiamento a suo modo generoso nei confronti delle nuove generazioni, ma nel quale giocava un ruolo non irrilevante anche il timore di non essere creduti o ascoltati. Ma la difficoltà degli scampati non può in alcun modo essere trasformata in alibi per quanti, invece, preferirebbero trincerarsi in un silenzio colpevole. La mia convinzione è che in Italia non si sia ancora sviluppata una coscienza storica e civile di quello che il fascismo ha rappresentato. So bene che è un discorso complesso, che coinvolge la cosiddetta “zona grigia” della quale ho cercato di dare conto anche nel mio libro. Ma questa mancata consapevolezza resta un fatto pericoloso, che ha molto in comune con le esplosioni di intolleranza che negli ultimi tempi si sono fatte solamente più rumorose rispetto a qualche tempo fa. Non ci si può illudere che l’antisemitismo sia un problema di oggi. Anche in Italia è sempre esistito, ora però ha conseguito una sorta di legittimità, che troppo spesso viene confusa con la libertà di espressione».
«Purtroppo – conferma Camillo Brezzi, storico di professione con una solida esperienza di assessore alla Cultura per la Provincia e il Comune di Arezzo – fin dal principio le celebrazioni del Giorno della Memoria sono state funestate da atti di vandalismo, intimidazioni, oltraggi. Qualcuno ha addirittura preteso che esi- stesse un rapporto di causa-effetto, come se l’intolleranza fosse l’esito di un eccesso di memoria. Non è affatto così e non solo perché l’antisemitismo è sempre esistito, appunto, ma anche perché è mutato e continua a mutare nel tempo, sollecitato da fattori diversi, di natura politica e sociale. Proprio per questo occorre soffermarsi ancora ad ascoltare la voce dei testimoni, i cui racconti costituiscono una risorsa irrinunciabile per la ricerca storiografica. Penso al patrimonio della Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, nel quale sono conservati più di novemila tra diari, memoriali, autobiografie, epistolari. Nessuno di questi documenti, preso isolatamente, permette di ricostruire il periodo al quale fa riferimento, ma in ciascuno di essi sono presenti informazioni preziose, che rivelano episodi sconosciuti, contestualizzano dettagli, forniscono un punto di vista personale su vicende che altrimenti rischieremmo di valutare solo dall’esterno. La persecuzioni degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale è molto studiata, è vero, ma a un certo punto mi sono resto conto che i momenti cruciali dell’arresto, del viaggio nei treni blindati e dell’arrivo nei lager non erano ancora stati approfonditi. E per capire che cosa accadesse in quelle giornate terribili non si può fare altro che affidarsi alle testimonianze dei sopravvissuti».
«Il ricorso alla memoria corrisponde alla stessa esigenza di concretezza dalla quale ci siamo fatti guidare per L’ebreo inventato – spiega Saul Meghnagi –. Anziché partire da affermazioni astratte, abbiamo isolato una serie di casi esemplari, li abbiamo analizzati in modo sistematico e da lì siamo risaliti ai princìpi generali sanciti dalla Costituzione. Si tratta di un percorso molto articolato, che passa per snodi spesso delicati e che richiede un concorso di competenze diverse, di tipo sia storiografico sia sociologico. Sono convinto che sia un modello di educazione civica che può essere applicato con efficacia anche ad altre forme di discriminazione e pregiudizio, come quelle derivanti dai cambiamenti demografici in atto nel nostro Paese. Oggi l’intolleranza rischia di essere più accettata rispetto al passato, lo sappiamo, e l’affiorare di nuove forme di rivendicazione identitaria va di pari passo con il permanere, nella memoria collettiva, di zone d’ombra che pochi sembrano disposti a esplorare. Prendere in esame un caso per volta, così come prestare ascolto a una singola testimonianza, aiuta a uscire dalla vaghezza di una versione troppo semplificata della storia. Senza trascurare il fatto che, per fortuna, dal passato si può anche imparare qualcosa di buono. Pregiudizi che un tempo sembravano insuperabili, come l’accusa di deicidio che attribuiva all’intero popolo ebraico la colpa dell’uccisione di Gesù, è venuta a cadere grazie al cammino compiuto dalle Chiese dopo la Shoah, anche attraverso la riflessione del Concilio Vaticano II. Anche a questo serve l’alleanza tra storia e memoria».