Cinema, Festa di Roma. Cortellesi, quello che le donne dicono
Paola Cortellesi in una scena del film “C’è ancora domani” di cui è anche regista
Forse non è un caso che, se Anna Magnani, icona del neorealismo italiano, ci sorride quest’anno dal manifesto della Festa del Cinema di Roma, a inaugurare la diciottesima edizione della manifestazione cinematografica diretta da Paola Malanga e presieduta da Gianluca Farinelli ci sia C’è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi, accolto con grande entusiasmo ieri dal pubblico. Scritto insieme a Giulia Calenda e Furio Andretti, il film prodotto da Wildeside e Vision, nelle sale dal 26 ottobre, è infatti la storia di una donna e della sua progressiva presa di coscienza. Una donna vicina a quelle raccontate da una stagione del cinema italiano che ha fotografato un processo di emancipazione femminile destinato a segnare la società italiana nei decenni successivi.
C’è ancora domani ci porta infatti nella Roma in bianco e nero del 1946, ancora divisa tra la miseria di una guerra da poco alle spalle e l’entusiasmo della liberazione. In quell’anno la città si preparava ad aprire per la prima volta le cabine elettorali alle donne in occasione delle prime elezioni amministrative post-belliche. Tra le strade e i cortili della capitale si muove Delia (la stessa Cortellesi), madre di tre figli e moglie di Ivano (Valerio Mastandrea), che non esita ad alzare le mani. Delia, che si occupa anche del vecchio e dispotico suocero (Giorgio Colangeli), accetta di buon grado la vita che il destino le ha riservato, concedendosi pochi momenti di leggerezza con l’amica Marisa (Emanuela Fanelli) e qualche sogno adolescenziale tra le poche parole scambiate ogni tanto con l’amore di un tempo, Nino (Vinicio Marchioni). Una svolta potrebbe arrivare grazie al matrimonio della primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) con Giulio (Francesco Centorame), figlio di buona famiglia, ma le cose non sono come sembrano. Una misteriosa lettera accenderà nella donna il coraggio per rovesciare i piani prestabiliti e immaginare un futuro migliore, non solo per lei.
«Con questo film volevo narrare le imprese straordinarie delle tante donne comuni che nessuno ha mai celebrato, ma che hanno costruito, ignare, il nostro Paese. No so se abbiamo mai intravisto un “domani”, ma per Delia un domani c’è: è un lunedì, ed è l’ultimo giorno utile per cominciare a costruire una vita migliore», dice la Cortellesi. «Delia è una delle donne che popolavano i racconti di mia nonna, vicende drammatiche, narrate però con la volontà di sorriderne. E che io mi sono immaginata in bianco e nero. Donne che, tra piazze e cortili, condividevano gioie e miserie, donne comuni che non hanno fatto la storia, che hanno accettato una vita di prevaricazioni perché così era stabilito, senza porsi domande, che hanno cominciato ad avere una coscienza politica e che comunque sono andate avanti. Per quanto mi riguarda le origini della questione femminile, risalgono proprio a quegli anni. Storie incredibili di nonne e bisnonne che venivano considerate delle nullità, che nessuno ricorda. Certo c'era anche Nilde Jotti a quei tempi, ma quella era un'eccezione, le donne allora non contavano nulla. Un esempio: mia nonna quando parlava diceva cose sensate, ma chiosava poi così: “ma che capisco io?”. Oggi, nonostante i diritti acquisiti grazie al sacrificio di molti, il problema culturale dell’Italia – e la cronaca ce ne dà conto quasi ogni 72 ore – non è cambiato».
Sebbene accetti la vita che la sorte le ha riservato, Delia però trama qualcosa. Una misteriosa lettera, un sogno di fuga, il fugace desiderio di riprendere in mano la propria vita e ricostruire una dignità calpestata da una società patriarcale e violenta. Ma la sua ribellione sarà più sottile e radicale di quella immaginata dallo spettatore. «Quella donna così fragile e inconsapevole, ormai condannata a un certo tipo di vita, farà qualcosa di inaspettato per amore della figlia. La sua vita forse rimarrà la stessa, ma cambierà la coscienza che avrà di sé, ed è quella la grande rivoluzione. Qualcuno le avrà dato il diritto di contare, che le è sempre stato negato. È stata mia figlia Laura a ispirarmi il finale, trovato nelle pagine di un libro che le stavo leggendo».
Con Calenda e Andreotti, la Cortellesi ha trovato il giusto equilibrio tra dramma e commedia. «Da dieci anni ormai scrivo con Furio e Giulia storie molto diverse e per noi è naturale usare l’umorismo, trovare il senso del ridicolo anche nella tragedia, perché le cose di tutti i giorni non hanno un colore solo. Il miglior modo per esorcizzare la paura dei carnefici è trasformarli in piccoli uomini ridicoli».
La violenza di Ivano su Delia non è mai mostrata in maniera diretta, filtrata da scene oniriche e metaforiche, ma non per questo è meno brutale. «Non è necessario mostrare quella violenza realistica che abbiamo già visto tante volte. Volevo mettere in scena un calvario quotidiano che Delia giustifica e si lascia scivolare addosso dicendosi che così stanno le cose». Quanto parla dell’oggi questo film? «Tantissimo, abbiamo studiato atti processuali recenti sulla violenza alle donne e le dinamiche sono le stesse di allora. Isolare la donna, svilirla e poi usarle violenza. Insomma è chiaro che abbiamo voluto parlare di cose che sono vive ancora oggi come anche il divario di trattamento economico tra uomo e donna»
Nel film tre generazioni di uomini restano ancorate a un modello di prevaricazione destinato a durare fino ai giorni nostri. Commenta Mastandrea: «L’unica differenza rispetto al passato sta nel fatto che oggi le donne hanno una maggior consapevolezza e trovano il coraggio di ribellarsi. Mentre nell’uomo non vedo differenze da ieri e oggi: continuano a maltrattare e uccidere le donne trovando mille alibi. Gli uomini raccontati da Paola sono gli stessi di oggi e credo sia compito anche del cinema quello di mostrare che l’uomo più fragile non è un perdente ma qualcuno in cui riconoscersi».