Teatro. Pappi Corsicato: «Dopo la fiction Napoli e teatro per ripartire»
Il regista e sceneggiatore napoletano Pappi Corsicato
Colorato, fantasioso, irriverente, fortemente napoletano. Il regista Pappi Corsicato ha appena compiuto sessant’anni festeggiando con grande successo personale il suo debutto nel mondo della fiction con Vivi e lascia vivere con Elena Sofia Ricci, andato in onda su Rai 1 a cavallo fra il periodo della quarantena e la ripartenza con una media di oltre 7 milioni di spettatori a puntata. Un artista poliedrico, Corsicato, che al suo debutto nel mondo del cinema nel 1993 con il cortometraggio Libera si aggiudicò il Nastro d’argento come miglior esordiente. Negli anni ha dimostrato di saper passare in scioltezza dal grande schermo (ultimo film Il volto di un’altradel 2012) al teatro sino al documentario d’arte, mantenendo sempre il suo stile personale, graffiante, stravagante. Ora tocca a lui inaugurare la ripartenza del Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, diretto da Roberto Andò, nell’ambito del Napoli Teatro Festival, che lo ha chiamato a dirigere La Chunga, uno dei testi più celebri e provocatori di Mario Vargas Llosa, con Francesco di Leva e Cristina Donadio. Spetta a Corsicato inaugurare Scena Aperta, il ciclo di spettacoli programmato dal 3 luglio al 1° agosto al Cortile del Maschio Angioino di Napoli con il quale lo Stabile napoletano recupera i testi che dovevano andare in scena in stagione, fra cui i nuovi lavori di Mimmo Borrelli, Massimo Luconi, Renato Carpentieri, Enrico Maria Lamanna.
Pappi Corsicato come arriva dopo anni di cinema al teatro?
Avevo già avuto una esperienza teatrale con Evita Peron al Mercadante. Ora mi è stato proposto dal Teatro Stabile di Napoli questo testo di Vargas Llosa che ha molto di cinematografico. L’autore presenta quattro versioni della stessa storia, ogni personaggio dà una ipotesi diversa della scomparsa di una donna, “ceduta” in pegno per una notte dal suo compagno come debito di gioco. Ho voluto rendere quanto più cinematografica possibile quella suggestione, ogni volta che si entra in un ricordo cambiano luci e atmosfera, c’è un cambio di registro. Resta soltanto, sulla scena, la materializzazione dei racconti dei quattro sfaccendati, che ho trasformato in marinai di passaggio in un un bar al porto di Napoli come tanti militari. Come nel famoso film di Kurosawa, Rashomon, tutti i personaggi danno una propria versione dei fatti, svelando, involontariamente, i propri desideri e le proprie debolezze, scoprendo, inconsapevolmente, il loro animo più segreto, ma mai, probabilmente, la verità su cosa successe realmente. La mia è una lettura molto libera del testo e dei personaggi.
Lei è reduce da un grande successo con la fiction Vivi e lascia vivere che segna il suo esordio assoluto in televisione dando di Napoli un’immagine diversa e fuori dei cliché.
L’uso del colore in un certo modo è una mia caratteristica, mi piace il riferimento al colore degli anni 50, l’ho sempre avuto in tutti i miei film. Ho voluto mostrare una Napoli che non si conosce, come la zona di Posillipo. Io amo Gomorra e I bastardi di Pizzofalcone, ma volevo dare un’altra lettura della città: la trovo fiorita, sempre in movimento, anche se fra alti e bassi è vitale, comunque, si alza. Nella fiction si raccontano più ceti sociali, per mostrare varie sfaccettature della città.
Lei si circonda di attrici dal carattere forte, come Iaia Forte che è stata la sua musa fin dall’inizio…
Iaia Forte è stata da sempre il “segno” del mio cinema. Ho apprezzato anche la bravura di Elena Sofia Ricci e di Bianca Nazzi, che danno il volto al riscatto delle donne. Ho avuto attori di grande talento che hanno dato molta forza alla serie: c’è una recitazione vera, senti le emozioni, questo fa la differenza, c’è una verità in quello che dicono.
Si parla di una seconda serie. Le piacerebbe continuare a lavorare per la tv?
La fortuna è che Vivi e lascia vivere è andato sorprendentemente benissimo anche quando è finito il lockdown. È stato molto appagante per me che avevo l’idea di fare qualcosa di totalmente diverso dalle solite fiction. Dopo un successo tale sarebbe il caso di fare un seguito, ma bisognerebbe creare qualcosa che non fosse deludente. Probabilmente è me- glio lasciare le cose così come stanno.
Lei è considerato un regista di carattere anche irriverente?
Rivendico la figura del regista. Capisco che c’è un fraintendimento sulla regia: la mia idea è di occuparmi di tutto. La parte che mi diverte è seguire in maniera meticolosa le scene, le musiche, i colori della fotografia, la recitazio-ne… Fa parte del gioco di vivere appieno questo mestiere.
I suoi film usano spesso il registro grottesco, diverso da quello del cinema italiano di oggi.
Qualcuno definisce il mio cinema iperrealistico, ma a me viene naturale, non nasce da una volontà precisa: la mia natura mi porta a un tipo di lavoro che non è né surreale né iperrealistico. Il mio modo di raccontare viene definito grottesco, ma non riesco a descrivere il mio lavoro con dei termini. La mia idea è raccontare storie dove ci sono una crisi e un conseguente cambiamento. Oggi mi interessa trovare un linguaggio diverso e originale per raccontare storie classiche.
Lei negli ultimi anni si è dedicato, però, soprattutto alla regia di documentari sull’arte. Com’è nata questa passione?
Ho iniziato a girare documentari d’arte grazie a Mimmo Paladino. Lui aveva visto i miei film e volle che raccontassi una sua installazione, la prima documentazione sulla Montagna di sale, presso Baglio Di Stefano a Gibellina nel 1995. Così ho conosciuto il mondo dell’arte per caso e mi sono appassionato grazie alla conoscenza con tanti artisti con cui ho collaborato negli anni, da Mario Mertz a Rauschenberg e Kapoor. D’altronde io fin da ragazzino ho sempre avuto la passione per tutto quello che è l’arte e i suoi vari linguaggi, ho anche studiato danza in America. Ad risultarmi più ostica è la parola, la scrittura. Tutto il mio mondo è visivo-
A proposito di mondo, come uscirà quello dello spettacolo da questa crisi? Lei è fra i primi ad andare in scena dopo l’emergenza…
Io sono propositivo, occorrono dei cambiamenti di linguaggio, di tecnica, occorre affrontare la crisi per avviare un’evoluzione, superando la paura.