Agorà

Giochi invernali. Il ghiaccio scongela le Coree

Mario Nicoliello, Pyeongchang giovedì 15 febbraio 2018

La storica squadra unificata con le giocatrici coreane del Sud e del Nord

E venne il giorno dei nordcoreani più forti sul ghiaccio. Degli unici che a questi Giochi ci sarebbero stati anche senza l’invito del Cio. Di due giovani che desiderano far parlare del loro Paese per meriti sportivi e non per ragioni politiche. Tredici ore dopo l’impresa dorata di Arianna Fontana, l’Ice Arena cambia faccia. Dallo short track al pattinaggio di figura, l’adrenalina della lotta spalla a spalla cede il passo all’armonia delle coppie di artistico impegnate nel programma corto. È tutta un’altra atmosfera, tanto che ad accogliere gli spettatori mattinieri è un tenore locale che trova l’acuto intonando “All’alba vincerò”.

Non saliranno sul podio, non arriveranno tra i primi dieci, ma Tae Ok Ryom e Ju Sil Kim entreranno comunque nell’album dei ricordi di questi Giochi d’inverno. Quando lo speaker presenta la coppia, lo spicchio di tribuna occupato dalle cheerleaders di Pyongyang si alza in piedi sventolando bandierine tascabili. Con giacca rossa e cappello bianco le ragazze del Nord inneggiano a squarciagola ai propri beniamini, mentre gli agenti della sicurezza tengono a debita distanza i fotografi. Sulle note di A day in the life nella versione eseguita da Jeff Beck, con addosso entrambi un abito grigio e nero, i pattinatori del Nord eseguono un esercizio buono, con elementi tecnici - modesti rispetto alle coppie più forti - più che buoni. Salti lanciati, piroette, spirali, elevazioni e sequenze di passi sono precise e anche l’interpretazione artistica rende. Non siamo al top, ma a un livello comunque da finale olimpica. La diciannovenne Ryom e il venticinquenne Kim chiudono l’esercizio puntando l’indice verso la telecamera, quasi a lanciare una sfida ideale, quella di discutere sul loro reale valore in campo e non sul luogo di nascita. Sono i più forti sportivi invernali della loro nazione e lo dimostrano nella prima apparizione a cinque cerchi della carriera.

Si meritavano questo palcoscenico, lo hanno ottenuto. Le connazionali applaudono garbatamente: ognuna al proprio posto, nessuna fuori dalle righe. All’angolo del “kiss and cry” il primo abbraccio è col tecnico canadese Bruno Marcotte che ha creato il sodalizio sui pattini con ore di duri allenamenti sul ghiaccio e in palestra. Oltre all’altezza, altra differenza tra i due è il colore dei pattini: bianchi per lei, neri per lui. Le due tinte estreme, quasi a voler racchiudere in un’inquadratura tutte le possibile sfumature. Per i due giovani di Pyongyang la partecipazione era solo il primo traguardo, desideravano poi migliorare il proprio record personale e accedere al programma lungo: bersaglio centrato grazie a una valutazione di 69.40, che a fine giornata li colloca all’undicesimo posto. In zona mista la marea di reporter rimane con i taccuini vuoti. Ryom e Kim passano velocemente senza fermarsi. Le uniche parole le rilascia lui, nella lingua madre, alla televisione locale: «Il nostro obiettivo era qualificarci per il programma libero, siamo contenti di esserci riusciti. Tutto è filato liscio qui a Pyeongchang, non abbiamo avuto alcun inconveniente. Vogliamo ringraziare il pubblico per il supporto datoci e per la passione con cui ha seguito il nostro esercizio». Poi via a cambiarsi, prendere parte al sorteggio per l’esercizio libero che hanno pattinato la notte appena trascorsa -, quindi in pullmann al villaggio. Finalmente si parla di Corea del Nord pure sul campo. Ce n’era bisogno, giacché i discorsi sui possibili negoziati di pace dopo la sfilata congiunta stavano diventando stucchevoli. Per strada la gente comune - qui a differenza di Soci e Rio in inglese si riesce a comunicare - ripete che non bisogna avere fretta, che la strada verso una possibile pace duratura è lunga e non si può correre.

Improvvisata secondo le persone della strada è la squadra unificata di hockey femminile, in gara contro il Giappone, dopo essere stata sconfitta per 8-0 sia dalla Svizzera che dalla Svezia. Al Kwandong Centre lo spettacolo più che sul ghiaccio è in tribuna durante gli intervalli. Le cheerleaders stavolta sono separate: metà nella tribuna bassa a favore di camera, le altre nella gradinata altra opposta. Rispetto al mattino non indossano più la giacca e sventolano un vessillo diverso, non quello del Nord bensì quello della Corea unita disegnata in blu su uno sfondo bianco. A ogni pausa la maestra del coro alza la mano per dirigere il canto di incitamento. Anche gli spettatori locali seguono le ballerine e così è festa piena. Se col bastone ricurvo sono più forti le sorelle del Sud, in tribuna i valori si ribaltano. La Corea unita - sigla “Cor” - viene sconfitta dal 4-1 dalle nipponiche, ma il risultato, e la conseguente eliminazione, interessa a pochi. Quando a dieci minuti dalla fine del secondo terzo la Corea segna la prima (e unica) rete della sua avventura olimpica sugli spalti tifose del Nord e del Sud cantano la stessa canzone. Per tutto il match il confine scompare e la penisola è unica. Una partita di hockey cancella quella linea tracciata sulla carta geografica.