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L'album. Conte, la musica è un «gioco»

Massimo Iondini venerdì 14 ottobre 2016
Suoni, anzi colori. Che nel mondo di Paolo Conte si intrecciano e si confondono da sempre. È la sua arte. E forse mai come questa volta trovano la loro più eloquente espressione, fondendosi totalmente nel primo disco strumentale del musicista di Asti. S’intitola Amazing gamee da oggi (edito da Decca, storica etichetta di musica classica), in formato cd e long playing, è negli store di tutto il mondo, dove Conte ha estimatori al di là delle latitudini, come senza confini è la sua musica. Certo, riconoscibile più che mai e inconfondibile tra echi di swing, di boogie-woogie, di dixieland e charleston, di musica classica e ritmi di valzer e di rumba che diventa un’allegria del tango. Ventitré brani di pura musica, ispirata ed evocativa, composta, suonata e raccolta dagli anni Novanta a oggi. «Sono registrazioni di epoche diverse – spiega il quasi ottantenne Conte –, colonne sonore di pièce teatrali ma anche sperimentazioni eseguite con i miei fidi musicisti di sempre, quelli che mi accompagnano nei concerti dal vivo. Questo non è un disco normale, contiene cose che mi sono piaciute nel tempo e le ho lasciate così com’erano venute. Suonate in stato di grazia con quella misteriosa complicità che s’instaura tra musicisti. C’è molta scrittura, ma anche tanta improvvisazione, moderna e libera, di sicuro non jazzistica». Una sottolineatura fondamentale per Conte, che sul jazz ha le idee molto chiare, visto che da quel mondo proviene quando ancora studente in Giurisprudenza fonda il Paul Conte Quartet prima di diventare quel creatore di canzoni che da metà degli anni Sessanta hanno fatto la storia della musica italiana e non solo. «Come ascoltatore e collezionista di dischi ho seguito tutta la storia del jazz – confessa Conte – ma alla fine finisco sempre col rifugiarmi negli arcaici anni Venti e Trenta. Lì c’è stata la vera rivoluzione della musica moderna. Quelle del bebop o del free sono state rivoluzioni molto più piccole, soltanto interne, non epocali. Forse ci vorrebbe uno psichiatra per capire questa mia passione per l’arte d’inizio Novecento, compresa la pittura e la musica classica».Inizio di secolo breve che echeggia in toto nel suo nuovo disco, in cui la sua voce si sente soltanto nel brano Tips, pronunciandone semplicemente il titolo. Voce che in fondo sembra alludere a un più eloquente silenzio. «Il silenzio per me è sempre stato in musica una sorta di strategia espressiva. I napoletani dicevano che il silenzio è cantatore. È così, trattiene la tensione e te la restituisce due battute dopo ancora più intensamente». Un disco che viene due anni dopo l’ultimo album di canzoni, Snob, e che sembra annunciare l’addio discografico di Conte a una carriera esplosa con Azzurro mezzo secolo fa. «Qualche canzone che giace nel cassetto ce l’ho – svela l’avvocato di Asti – ma in ogni caso non faccio differenza sostanziale tra musica strumentale e canzoni. Semmai nello strumentale non hai le distrazioni che ti possono dare le parole e quel bisogno di creare contenuti narrativi che vi si affianchino. Il racconto della musica è più astratto e la mia vena compositiva è antica, prima ancora che cominciassi a fare canzoni».Parole che Conte ha sempre centellinato e dosato, sia come autore sia come comunicatore tout court. Per questo in fondo il Premio Nobel per il “letterato” Bob Dylan non sembra essergli andato del tutto a genio. «Sono d’accordo con queste aperture degli accademici svedesi, avvenne già con Dario Fo. Non c’è più quel dogmatismo e la letteratura è una forma imparentata con teatro e canzone. Perciò non mi scandalizzo e mi congratulo con Dylan. Ma trovo comunque che tra gli anni Settanta e Ottanta in Italia c’è stato un dispendio di energia letteraria di gran lunga superiore alle altre nazioni. Avrei dato un Premio Nobel agli italiani». E tra quegli italiani il numero uno per Conte era Enzo Jannacci. Eredi di quella genìa, Conte compreso, in giro però oggi non e vede proprio. «Non sento eredi, ho avuto migliaia di maestri. Non so se è un complimento che mi faccio o un difetto che ho per non aver trasmesso niente di me».Nessun brano delle 23 composizioni del nuovo, insolito e coraggioso album farà comunque parte della scaletta dei concerti in programma. Si comincia il 22 ottobre all’Auditorium della Conciliazione a Roma, poi Brescia il 29 e a novembre due date (11 e 12) agli Arcimboldi a Milano. A febbraio l’estero: l’amata Parigi, dove Conte è un’istituzione, e Amburgo. «Non faccio altro tipo di promozione dei miei dischi, evito la tv e preferisco non strapazzarmi troppo alla mia età. Poi non amo molto la tv. Alla sera quando mi capita di ritrovarmi in mano il telecomando, dopo un po’ mi alzo perché non trovo merito e me ne vado ad ascoltare alla radio dell’ottima musica classica».È infatti pulsante di classica il suo Amazing game, dove violini, archi, fiati, pianoforte, corni francesi s’inseguono e dialogano su ritmiche e armonie che sono un compendio di stili e di periodo diversi (dal camerismo a echi di Ravel e Stravinskij), tutti filtrati da una sonorità e un’inventiva compositiva in perfetto stile Conte. Esotici, misteriosi, evocativi i titoli delle tracce. Paiono alludere a chissà quali mondi lontani e imperscrutabili. «I titoli scelti – svela – non soltanto sono un aiuto per capire la canzone. Io li metto sempre alla fine. Prima ci sono titoli provvisori nelle mie scartoffie. Li metto soltanto alla fine perché diano almeno una minima idea di quello che ho intravisto componendo ed eseguendo. La canzone Zama, per esempio, non c’entra niente con la famosa battaglia: suonava bene e basta. Così come non c’è alcuna strategia nella successione dei brani ». Dipinti ed evocazioni, appunto. E niente più, perché per Conte «l’arte non è comunicazione, ma non so cosa bene sia». Suggestioni del Conte anche apprezzato pittore. Autore dei meravigliosi quadri che costellano la copertina del disco. «È solo un semplice omaggio per chi lo compra».